Chi destabilizza la Libia, porta di passaggio dei flussi dei migranti? Per meglio comprendere il sequestro del primo ministro Ali Zeidan bisogna partire dalla nuova geografia politica di Tripoli.
La Tripoli gheddafiana si strutturava lungo un’antica linea di divisione tra Est e Ovest: all’Est, il cuore profondo popolare e all’Ovest la città benestante, coi quartieri di ciò che restava della borghesia di Re Idriss. La rivoluzione del 17 febbraio ha alterato la geografia politica della città. Alla linea divisoria tra Est e Ovest si è sostituito un nuovo asse che divide la città tra Nord e Sud. Il Nord costiero, la Tripoli che guarda il mare, è sotto il rigido controllo delle milizie islamiste mentre il Sud, la città rivolta al deserto, è controllato dalle milizie di Zliten. Non è quindi un caso se il sequestro sia avvenuto all'Hotel Corinthia, a Nord, nella Tripoli che guarda il mare. Quell’area è un feudo islamista in cui difficilmente cinquanta veicoli armati avrebbero potuto insinuarsi autonomamente.
I primi commenti della stampa hanno evidenziato la matrice islamica dell’accaduto, interpretandolo come una ritorsione rispetto all’arresto del terrorista Abu Anas Al Libi, avvenuto ad opera americana lo scorso 5 ottobre. Numerosi commentatori locali hanno visto dietro il sequestro la mano lunga di Abdel Hakim Bel Hadj, il leader islamista tripolino. In questa prospettiva, il tentato sequestro si iscriverebbe in una strategia di radicalizzazione islamista perseguita negli ultimi mesi.
Guardando in profondità, il quadro appare tuttavia più incerto. Diverse rivendicazioni si sono sovrapposte. L’agenzia ufficiale Lana ha evocato, in un primo momento, il possibile coinvolgimento della milizia Brigata per la lotta contro il crimine. La rivendicazione più attendibile appare tuttavia quella della Libyan Revolutionary Operations Chamber, una nebulosa di milizie di orientamento islamista
Le Libyan Revolutionary Operation Chambers appaiono tuttavia sprovviste di un nucleo ideologico propriamente islamista. Nel loro programma politico presentato la scorsa primavera, l’instaurazione di uno Stato islamico figura al primo posto. Si tratta tuttavia di una vaga referenza che non si articola in maniera organica ma che appare al contrario venata da concetti e principi di derivazione democratica. Non a caso nel manifesto si sostiene l’introduzione in Libia di un sistema democratico e il resto del programma si autodefinisce “patriottico” in quanto mira a preservare l’unità libica contro qualsiasi spaccatura tribale o geografica del paese.
La vera questione posta dal sequestro lampo del 10 ottobre è pertanto quella formulata dalla testata libica Ossan “Non chi ma perché”. L’obiettivo immediato del sequestro non sembra l’islamizzazione del Paese in quanto essa procede già a tappe forzate nella società partendo dal basso e non necessita quindi di azioni eclatanti.
L’obiettivo principale di questa azione appare piuttosto la destabilizzazione, la palude e il naufragio del processo di transizione democratica. Il sequestro di Ali Zeidan marca un punto di svolta nella crisi libica. La fase costituente che l’assemblea legislativa libica avrebbe dovuto facilitare è sostanzialmente fallita e il Paese appare sempre più sull’orlo della “somatizzazione”. Sugli scenari futuri peserà molto il posizionamento dei Fratelli musulmani, che in occasione del sequestro hanno assunto una posizione ambigua. Da un lato, essi hanno condannato con veemenza l’accaduto, dall’ altro, alcuni commentatori hanno ipotizzato un coinvolgimento del Presidente del Parlamento, Nuri Ali Abu Sahmain, anima dei Fratelli musulmani nelle regioni berbere della Tripolitania e ispiratore della Libyan Revolutionary Operations Chamber.
In questo senso, nei prossimi mesi la Libia costituirà la cartina di tornasole per capire se e in che modo la radicalizzazione della Fratellanza in Egitto avrà effetti destabilizzanti anche sullo scenario regionale.
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