Il dibattito italiano sui temi europei appare monco. E, indipendentemente da quelle che sono le idee di ognuno di noi, non è una buona cosa.
In Europa si confrontano tre grandi visioni, variamente rappresentate da schieramenti e partiti politici e quindi presenti come offerta alle prossime elezioni. Come ben noto, c’è una forte e crescente tendenza euroscettica (o antieuropea). Molti pensano che l’integrazione comunitaria sia andata troppo in là, in particolare con la costruzione della moneta unica, e che sia opportuno avere meno Europa e tornare a più forti sovranità nazionali. Ad essa si contrappone una visione che si potrebbe definire eurorealista. Le regole europee sono il frutto di un lungo e complesso processo decisionale comune. Sono giuste; comunque, non si possono più cambiare. I profondi problemi – in primo luogo di disoccupazione – che si registrano in tanti Paesi comunitari non sono conseguenza di queste regole, ma di politiche nazionali sbagliate, innanzitutto per quanto riguarda spesa, deficit e debito pubblico. Inutile lamentarsi; anzi, l’Europa ci aiuta. Ci costringe, attraverso il suo “vincolo estero”, a cambiare i nostri Paesi. Come dice il nostro nuovo presidente del Consiglio, il debito pubblico italiano va ridotto innanzitutto per i nostri figli, e non solo perché l’Europa ce lo chiede. C’è infine una terza visione, forse definibile euroriformatrice. Il problema non è la sovranità europea, che anzi va incrementata; il problema sono le specifiche politiche macroeconomiche che l’Europa sta attuando: gli ultimi 5 anni hanno mostrato come esse non siano in grado di garantire benessere e prosperità a tutti i cittadini.
Quest’ultima visione, ad esempio, è stata ben argomentata nel corso di un bell’evento organizzato dal CEPS (Centre for European Policy Studies) a Bruxelles, la settimana scorsa, sul futuro dell’Europa. In particolare in un confronto fra due economisti di grande spessore, Paul De Grauwe e Charles Wyplosz, sono state fornite molte valide argomentazioni circa l’insostenibilità, nel medio-lungo termine, dell’attuale politica dell’austerità: la crisi nasce dai mercati finanziari e non dai conti pubblici, è di domanda e non di offerta (quindi le “riforme strutturali” di cui tanto si parla non garantiscono affatto il ritorno alla crescita); la crisi è fortemente e pericolosamente asimmetrica fra Paesi; sta portando a un tracollo degli investimenti pubblici e quindi del potenziale di sviluppo; senza una forte crescita ridurre i debiti è impossibile. Di qui proposte di una diversa politica economica europea, a cominciare da forme di Eurobond per un rilancio degli investimenti.
In Italia, però, la discussione è monca, come dicevamo. Quest’ultima visione è assai più debole nel dibattito pubblico, culturale e politico. Le scelte sembrano ridotte solo alle due prime opzioni: se non si è antieuropei, le attuali regole comunitarie vanno prese come un dato immutabile. E l’unico problema è attuarle, rispettare i parametri, tagliare la spesa. Tutta la nostra grande stampa è una fiera sostenitrice di questa linea. Tranne Grillo e la Lega, tutti i principali partiti – a cominciare dal Partito democratico – si collocano in questo schieramento. Forte è la voce di quanti sostengono posizioni estreme: l’austerità come un bagno salvifico per l’Italia, per ridurre finalmente il ruolo dello Stato; il taglio radicale della spesa come un bene di per sé.
Come si diceva in apertura, la sottorappresentazione – specie nello schieramento politico che si autodefinisce di centrosinistra – delle posizioni euroriformatrici non è un bene. E non solo per la ricchezza del dibattito. Le tesi degli euroriformatori, pur con le enormi difficoltà politiche che hanno davanti a sé, non posso essere derubricate a sogni senza speranza; al contrario, esprimono un preoccupato realismo: se l’Europa non cambia, nei prossimi anni può crollare. C’è un evidente pericolo in un confronto limitato a chi difende in toto l’Europa così com’è oggi e chi la contesta radicalmente. Se i primi non dovessero riuscire a garantire ai cittadini, in tempi brevi, benefici concreti e ragionevoli speranze per il futuro, il consenso per i secondi non potrà che crescere.
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