Mi sono messo a collezionare scene di resa. La letteratura è piena di eroi vittoriosi, di stoiche resistenze. Alla fine della resistenza non è detto che si vinca, ma intanto si resiste, e questi atti di abnegazione e coraggio finiscono nelle antologie scolastiche: Enea che fonda Roma dopo anni di pene e peregrinazioni; Orlando che si fa ammazzare a Roncisvalle, ma non volta le spalle ai Saraceni; gli assediati a Masada, a Varsavia, a Stalingrado. Uno impara che la storia, la civiltà, la fanno quelli che tengono duro.

Da qualche tempo, invece, hanno cominciato a interessarmi quelli che rinunciano alla lotta, che lasciano perdere. Sarà l’età, i cinquant’anni che si avvicinano, sarà la quotidiana pillola di demoralizzazione che involontariamente si assume vivendo in Italia (ci torno più avanti): sono attratto non tanto dagli sconfitti – anche se sono sempre stato ossessionato dalla perfezione del titolo di un libro di Cortázar, Modi di perdere – quanto da quelli che abbandonano il campo perché sanno di non poter vincere o, più profondi, perché sanno che vincere non si può.

Ho scritto un libro su Tommaso Labranca, uno scrittore e autore televisivo che a un certo punto della sua vita, verso i quarant’anni, scompare dai radar dell’editoria e dello show-business, e nel quindicennio successivo campa di collaborazioni occasionali, traduzioni e ghostwriting, pubblicandosi i libri in casa, e sognando una segregazione ancora più perfetta: «Io ho da sempre un solo progetto. Fare i soldi necessari a cancellare la dimensione pubblica dalla mia vita. Niente più treni, cinema e pizzerie. Villa isolata sul lago di Zurigo».

Labranca ha vissuto tutta la sua vita tra Milano e Pantigliate, un paesino dell’hinterland: non si è mai mosso di lì, e lì è morto nel 2016 a 54 anni. Invece mi sono accorto di avere uno speciale interesse per quel tipo di resa che implica un ritorno a casa, a una forma di vita leggermente meno evoluta, o – se meno evoluta suona male – leggermente meno complessa di quella alla quale, sino a un dato momento, si era tentato di aderire. Nelle pagine finali di Lo scrittore e il mondo c’è un poscritto intitolato La nostra civiltà universale in cui tra l’altro Naipaul parla di un romanzo della scrittrice iraniana Nahid Rachlin, Foreigner. La protagonista è Feri, una biologa iraniana che è emigrata negli Stati Uniti per studiare, ha sposato un americano e si è stabilita a Boston. È serena, realizzata. Ma un giorno, scrive Naipaul, dopo essere tornata a Teheran per un periodo di vacanza, «l’equilibrio si rompe». La famiglia d’origine la risucchia, tornano i ricordi. Il visto d’uscita tarda ad arrivare. La giovane donna ha una crisi: ripensa alla sua vita negli Stati Uniti, la scopre vuota, vana. Si ammala, va in ospedale e incontra un medico che ha avuto un’esperienza simile alla sua: «anche lui ha vissuto per un periodo negli Stati Uniti e al suo ritorno, racconta, ha trovato la pace visitando le moschee e i luoghi sacri per un mese». Feri capisce che non tornerà più a Boston: resterà in Iran e metterà il velo, e una volta guarita farà come il medico, andrà in pellegrinaggio nei luoghi sacri dell’Islam. Presa la decisione, si sente pacificata. «Una rinuncia immensamente appagante», commenta Naipaul; ma, continua, «sul piano intellettuale è discutibile: presuppone che là fuori, nel mondo frenetico, qualcuno continuerà comunque a lottare, a produrre i farmaci e le attrezzature medicali grazie a cui l’ospedale del dottore iraniano potrà proseguire la sua attività» (V.S. Naipaul, Lo scrittore e il mondo, trad. it. Adelphi, 2017, pp. 523-524).

Naipaul era affascinato da storie come questa perché lui, come molti, aveva fatto lo stesso cammino, dalla periferia al centro, dall’isola di Trinidad a Londra. A differenza di Feri, però, lui non aveva mai avuto la tentazione di tornare indietro. Indietro a cosa, del resto? Ai dodici mesi di estate tropicale di Trinidad? Recensendo i libri di Naipaul sull’India, Ian Buruma ha osservato che «un desiderio comune tra coloro che sono scappati dal buio abbraccio della tribù è trovare la via del ritorno» (I. Buruma, The Missionary and the Libertine. Love and War in the East and West, Faber & Faber, 1996, p. 115). Naipaul non aveva nessuna tribù alla quale tornare, la sua opzione per la «nostra civiltà universale» non ha mai patito incrinature.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 3/20, pp. 558-565. Il fascicolo è acquistabile qui]