La foto, ormai, è comparsa anche sulla prima pagina dei quotidiani: il volto cereo sullo sfondo di un lenzuolo azzurro, le palpebre gonfie, tumefatte, il collo e il corpo trasparenti, scheletrici: pare che il giorno del fermo, una settimana prima, pesasse quarantatre chili, mentre lì, disteso sul tavolo dell’obitorio, ne pesa trentasette. Certo, si trattava di un pericoloso criminale: uno che portava a spasso il cane con nelle tasche ben 20 (venti) grammi di hashish e ben due pasticche di extasy (in realtà, un farmaco salvavita contro l’epilessia) non merita certo tanti riguardi, dev’essere ammanettato, processato per direttissima e poi stare in carcere, in un Paese dove boss mafiosi escono di galera perché depressi.

Ma com’è morto Stefano Cucchi, geometra, trentuno anni, dopo un calvario durato sei giorni, mentre i parenti correvano da Erode a Pilato per avere notizie? Forse come Federico Aldrovandi, diciotto anni, colpevole di assomigliare a un albanese, ammazzato da quattro poliziotti, a Ferrara, il 25 settembre 2005, dopo essere stato picchiato rompendo due manganelli, e poi lasciato morire chiamando in ritardo l’ambulanza; condannati in primo grado a tre anni e sei mesi, i suoi assassini non faranno un giorno di galera e prima o poi verranno promossi, come sempre. O forse come Aldo Bianzino, falegname di 44 anni morto nel carcere di Perugia il 14 ottobre 2007 con quattro costole incrinate ed emorragie varie, dopo due giorni di detenzione per coltivazione di marjuana in giardino. Del resto, nel 2009 ci sono stati 146 morti nelle carceri italiane, 9 dei quali solo a ottobre.

Ma com’è morto Stefano Cucchi? Forse come Federico Aldrovandi, ammazzato perché colpevole di assomigliare a un albanese? O forse come Aldo Bianzino, ucciso perché coltivava marjuana in giardino?


Il bello è che qualche giorno fa, a Roma, s’era svolta una marcia di quarantamila poliziotti per denunciare gli stipendi da fame e i tagli alla sicurezza; il livello di esasperazione era tale che alla manifestazione pare abbiano partecipato anche membri di corpi militari dello Stato, ai quali sarebbe vietato. Tutto sacrosanto: ma, e le mele marce? I picchiatori di tossicodipendenti che non si reggono in piedi, magari molto meno aggressivi con i boss della n’drangheta? Quelli che si ritirano strategicamente davanti ai black bloc, ma poi entrano nella Scuola Diaz e mandano all’ospedale novantatre ragazzi ospiti del Comune di Genova (su novantatre)? E il portavoce dei carabinieri a cui è stato richiesto di spiegare le fratture sul corpo di Stefano, quello per il quale le camere di sicurezza non sono alberghi a cinque stelle? A quando il suo encomio solenne?


Anch’io, come gli indagati per l’omicidio Cucchi, sono un servitore dello Stato: faccio anch’io un mestiere punitivo, il professore universitario di diritto, perché mio padre, carabiniere semplice che prendeva uno stipendio inferiore a quello di ciascuno di loro, s’è tolto il pane di bocca per farmi studiare. Eppure, fra loro e me resta questa piccola differenza, che qualcuno mi dovrebbe spiegare. Se uno studente comunque affidato alla mia responsabilità esce da un’aula o uno studio universitario con i piedi in avanti, massacrato di botte, è probabile che io venga sospeso dal servizio e dallo stipendio, isolato dai miei colleghi, e poi finisca in galera. Ora, perché non avviene la stessa cosa per carabinieri disinvolti, guardie penitenziarie distratte, medici compiacenti, giudici creduloni? Peggio ancora: chi continua a rifiutare l’introduzione nel nostro Paese del reato di tortura, e per quale ragione, se si può dirla?