«Torna il carcere», dice il XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Osservatorio di Antigone. Raramente un titolo è stato altrettanto azzeccato. Soggetto e predicato esprimono e sintetizzano efficacemente la tendenza del sistema penitenziario italiano. Certo, tra i non addetti ai lavori, qualcuno si starà chiedendo dove mai fosse finito quel carcere che Antigone vede sulla via del ritorno. Poche istituzioni godono di sicura considerazione sociale come il carcere e dunque sembra curioso parlare di un suo ritorno, come se non fosse saldamente ancorato al nostro mondo e al nostro immaginario. Eppure negli anni passati qualcosa era successo, e sembrava andare in senso inverso, verso la decarcerizzazione.
A cavallo della prima decade di questo secolo, infatti, la Corte europea dei diritti umani aveva assestato un bel colpo all’istituzione carceraria, o quanto meno alla sua concreta italica manifestazione. Nel 2009 la Corte condannava per la prima volta l’Italia per il trattamento degradante cui era stato costretto una persona detenuta nel carcere romano di Rebibbia Nuovo complesso. La causa della violazione della Convenzione europea per i diritti umani era da ascriversi al sovraffollamento penitenziario che costringeva i detenuti (e specificamente il ricorrente) a condizioni giudicate dalla Corte inumane o degradanti. All’indomani di quella sentenza alcune migliaia di detenuti, sostenuti da associazioni e movimenti per i diritti civili, hanno fatto ricorso al medesimo giudice per ottenere analogo risarcimento. A giugno 2010 nelle carceri italiane erano costrette più di 68.000 persone per circa 40.000 posti: difficile immaginare che i detenuti (salvo quelli in isolamento) non vivessero in condizioni di sovraffollamento inumane e degradanti analoghe a quelle denunciate dal primo ricorrente. Così la Corte di Strasburgo quando arriva a esaminare il primo dei migliaia di ricorsi seguenti a quello deciso nel 2009 adotta una sentenza pilota: trattandosi di un problema strutturale del sistema penitenziario italiano, il governo ha avuto un anno di tempo (poi leggermente prorogato) per ridurre il sovraffollamento ed evitare migliaia di condanne. E così è stato: grazie a un concorso di misure, legislative e organizzative, con lo stimolo del presidente Napolitano, che proprio a seguito della condanna europea ha mandato l’unico formale messaggio alle Camere del suo lungo mandato, alla fine del 2015 la popolazione detenuta era scesa a poco più di 52.000 persone. Anche per accompagnare questo sforzo di riduzione delle presenze in carcere e di umanizzazione della pena detentiva, il ministro Orlando aveva promosso gli Stati generali dell’esecuzione penale, coinvolgendo centinaia di operatori e studiosi nella elaborazione di linee di riforma del sistema nella direzione delle alternative al carcere e del reinserimento sociale dei detenuti. È una doccia fredda, dunque, leggere «torna il carcere». Nel corso del 2016 la popolazione detenuta è tornata a crescere, raggiungendo quasi le 55.000 unità. E al 31 maggio 2017 siamo già a 56.878 detenuti.
La situazione non può non dirsi allarmante, sia che ci si preoccupi delle condizioni di detenzione, sia che si consideri l’aumento della popolazione detenuta un sintomo della diffusione della criminalità. Per fortuna, però, anche i dati più recenti confermano una relativa indipendenza dei tassi di carcerazione dai tassi di devianza penale. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dal ministero dell’Interno, tra agosto 2015 e luglio 2016, mentre la popolazione detenuta arrivava al minimo e cominciava a ricrescere, i reati commessi sarebbero calati del 7% rispetto all’anno precedente. Scendevano soprattutto gli omicidi (solo 398, forse un minimo storico), ma anche le rapine (-10,6%) e i furti (-9,2%), che costituiscono gran parte dei reati denunciati in Italia.
Cosa sta succedendo, dunque? Come mai questa ripresa delle incarcerazioni in condizioni di relativa stabilità, se non di calo, dei delitti? Torna qui quella differenza che abbiamo imparato a conoscere e riconoscere tra (in)sicurezza reale e (in)sicurezza percepita: pur in condizioni di relativa sicurezza dai rischi di vittimizzazione, è possibile che si diffonda una alterata percezione del rischio di diventare vittime di reati. Come e perché ciò accada non è questo il luogo in cui approfondirlo. Tra le cause di breve periodo, chi scrive sospetta che sia tutt’altro che irrilevante il piano inclinato che dallo scorso anno ci sta portando alle elezioni nazionali, con il ruolo che - in una lunga campagna elettorale a bassa intensità - stanno giocando i temi della sicurezza e gli imprenditori politici della paura. Ma quali che siano le cause della nuova percezione di insicurezza, certamente essa sta già producendo effetti reali, attraverso il comportamento degli attori del sistema della sicurezza. Se durante la crisi umanitaria del sovraffollamento penitenziario (tra il 2010-2013 e il 2015) gli input politici e istituzionali erano tutti nel segno del contenimento delle incarcerazioni, e l’opinione pubblica sembrava condividere quella preoccupazione e quella cautela, nell’ultimo anno e mezzo gli input sono stati di segno diametralmente opposto. Come in altre circostanze della storia recente, l’intero sistema penale e penitenziario e i suoi singoli operatori (dal poliziotto di pattuglia che può o no fermare in strada una persona dall’aria «sospetta» al magistrato di sorveglianza che deve decidere su un’alternativa al carcere) hanno immediatamente compreso il significato di quegli input, adeguando il proprio comportamento alla nuova domanda di controllo sociale istituzionale. «Torna il carcere», dunque, con tutti i suoi rischi, sia in termini di violazioni dei diritti umani dei detenuti, sia in termini di diminuzione delle risorse per il loro reinserimento e, quindi, di diffusione della recidiva. Antigone ci ha messo in guardia, a tutti noi la responsabilità di agire conseguentemente.
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