A una parete dell’ufficio da sindaco di Piero Fassino è appesa la foto di un evento che ha pesato nella sua storia personale come in quella della città da lui amministrata sino a ieri. Ritrae Enrico Berlinguer davanti alla Fiat. L’anno è con tutta probabilità il 1980 e l’occasione il grande sciopero, detto dei «35 giorni», quando il giovane Fassino era il responsabile della commissione fabbriche della federazione locale del Pci.
Mi sono spesso chiesto che senso avesse per lui conservare un’immagine che probabilmente l’avrà accompagnato appesa alle pareti dei vari uffici occupati nel tempo. Da sindaco di Torino ha appoggiato con convinzione e autorevolezza la trasformazione della Fiat in Fiat Chrysler Automobiles. È stato senza esitazioni al fianco di Sergio Marchionne in occasione del referendum sul contratto aziendale, in cui era in gioco la continuità dello stabilimento di Mirafiori. E allora perché mai l’attaccamento a quella vecchia foto?
Fassino è rimasto convinto che il professionismo politico alla lunga finisse col pagare sempre. Soltanto nella notte tra il 19 e il 20 giugno ha scoperto che non è così, che non esiste un mestiere della politica che pone al riparo in ogni circostanza dai sommovimenti che si verificano nella società. Anche la miglior carriera, dunque, viene a consunzione dopo quarant’anni in cui non ci si è trattenuti dal ribaltare le proprie posizioni.
Fassino deve aver fatto un grande sforzo su se stesso per ammettere la sconfitta a opera di una ragazza, come l’ha talvolta definita in modo quasi sprezzante il suo entourage, di trentacinque anni più giovane. Una consigliera comunale inesperta che, durante una seduta destinata a restare nelle cronache, aveva seccamente invitato a misurarsi con le responsabilità concrete di sindaco, invece di perdersi in critiche sterili. Non solo: il sindaco uscente ha cercato di dare una spiegazione razionale della propria sconfitta. Ha detto che la sua amministrazione ha pagato il passaggio del sistema politico da un assetto bipolare a uno tripolare. Perciò la convergenza della destra sui 5 Stelle ha determinato il risultato di Torino.
L’argomento è ben presentato, ma non si rivela fondato. A Torino l’amministrazione ha perso perché le elezioni municipali sono diventate – come ha notato Bruno Manghi sul sito di commenti politici locali Lospiffero.com – un referendum su Fassino, come ultima configurazione del «Sistema Torino», vale a dire una sorta di blindatura dell’establishment che si vedeva riconfermato nelle proprie funzioni a ogni tornata elettorale. Questo sistema si sarebbe configurato in origine addirittura nel 1993, quando Valentino Castellani sfidò la vecchia sinistra di Diego Novelli e riuscì a prendere la guida della città grazie a una saldatura con l’élite urbana, espressione dei ceti professionali, industriali e bancari. L’alleanza aveva un senso e in effetti funzionò, almeno all’inizio, per ridare una missione a un nucleo metropolitano che stava uscendo dalla stagione del fordismo, prolungata fino all’estremo.
Col volgere degli anni, tuttavia, il Sistema Torino si è trasformato in un formidabile strumento di conservazione del potere locale nelle mani di quella che è diventata un’oligarchia, senza che vi fosse un ricambio della rappresentanza. Di qui l’affanno crescente dimostrato dall’amministrazione man mano che le difficoltà economiche aumentavano, insieme col disagio sociale.
L’errore fondamentale di Fassino è stato di negare la portata di questi problemi, preferendo insistere sul volto nuovo con cui Torino si era presentata al mondo a partire dalle Olimpiadi invernali del 2006. Ma la crisi è stata spietata e ha svelato il malessere delle periferie urbane (e non solo di esse), dinanzi alla caduta del modello economico torinese, non più industriale come nel passato e non ancora policentrico come pretendeva di essere divenuto. Così, il racconto urbano di Fassino ha finito col negare addirittura l’ampiezza e la diffusione della povertà a Torino, ciò che gli ha attirato persino le rampogne della Caritas.
L’essere costretto al ballottaggio ha scomposto un establishment che ha deciso di reagire alla sfida di Chiara Appendino facendo blocco su se stesso. Il sostegno troppo scoperto dei media locali (a cominciare da «La Stampa» e dalla redazione locale di «Repubblica», che hanno tenuto un comportamento imprudente, specie se si pensa al fatto che l’elettorato giovanile era compattamente a favore della candidata dei 5 Stelle) ha oscurato il fatto che Fassino e il Pd, col loro attivismo un po’ disordinato, stavano ormai lavorando per la loro sconfitta.
Il compito della nuova amministrazione in una città colpita con questa durezza dalla crisi è improbo. Ma almeno le elezioni hanno fatto chiarezza, seppellendo per sempre lo scenario di una Torino novecentesca di cui non resiste più nessuna icona.
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