Le isole della Polinesia fanno parte dell’immaginario esotico, ed erotico, dell’Occidente dal XVIII secolo. La loro rappresentazione – complici dipinti, romanzi e diari di coloro che si erano spinti fino a lì – è ruotata tanto attorno al sinuoso e "disponibile" corpo femminile quanto a un paesaggio edenico dove il cibo era così abbondante e a portata di mano da rendere accessorio lo sforzo per coltivarlo; venendo a connotare le sue popolazioni talvolta come indolenti e tal altra come incorrotti primitivi allo stato di natura.
Se per una decostruzione dell’immaginario corporeo rimando all’esemplare opera artistica di Yuki Kihara, Paradise Camp, esposta quest’anno alla 59 Biennale di Venezia, per l’analisi critica dell’ambito alimentare e delle popolazioni coinvolte inizio con l’evocare una fonte tanto antica quanto autorevole: il capitano James Cook. Questo esperto navigatore, che le isole della Polinesia le aveva mappate e attraversate più volte, già a fine Settecento scriveva nelle sue pagine di diario in polemica con la rappresentazione del capitano francese Bouganville, che "la natura benigna è stata certamente generosa con queste isole, tuttavia non si può dire che gli abitanti siano interamente esenti dalle calamità, parte del loro pane devono guadagnarselo con il sudore della fronte: l’alto grado di coltivazione di queste isole deve essere costato agli indigeni una fatica immensa, che viene ora ricompensata dalla vasta produzione della quale tutti possono profittare così che a nessuno manca il necessario per far fronte alle comuni esigenze della vita".
Il capitano James Cook, nel decostruire la narrazione esotica e romantica che si faceva delle isole polinesiane, aveva colto due aspetti fondamentali: il paesaggio lavorato dall’uomo e l’esistenza di un corpus di conoscenze agricole della popolazione indigena che ne garantivano la sicurezza alimentare
Cook, pur nei limiti degli strumenti interpretativi del suo tempo, nel decostruire la narrazione esotica e romantica del suo predecessore, aveva colto due aspetti fondamentali: il paesaggio lavorato dall’uomo e l’esistenza di un corpus di conoscenze agricole e silvestri della popolazione indigena che ne garantivano la sicurezza alimentare. "Mi sembra di essere in una della pianure più fertili dell’Europa", scriveva ancora delle isole Tonga sul suo diario di bordo; "non vi era un pollice di terreno incolto; le strade non prendevano più spazio di quanto fosse necessario; ogni recinzione non occupava più di quattro pollici di terreno e anche quei quattro pollici non erano del tutto sprecati, perché in molte recinzioni erano intercalati alberi da frutto e piante della stoffa, che servivano anche da sostegno".
Questo corpus di conoscenze che organizzava lo spazio marino e terrestre, e che costituiva il regime alimentare delle popolazioni, è oggi nuovamente al centro dell’interesse degli Stati insulari della Polinesia, pur nella eterogeneità delle loro storie, in ragione dei sempre più evidenti effetti del cambiamento climatico e della volontà di emanciparsi da un secolo di dipendenza dalla economia degli aiuti.
Proprio il caso dell’arcipelago di Tonga appare particolarmente interessante perché, diversamente dalle altre isole, non ha subito la colonizzazione europea, la sottrazione delle terre e la decimazione della popolazione locale; piuttosto ha condiviso con le altre isole oceaniane l’impatto della presenza missionaria. Inviati dalla London Missionary Society negli anni Venti dell’Ottocento, i missionari hanno giocato un ruolo cruciale, sebbene con effetti diversi dalla colonizzazione, nella modifica del sistema sociale, dell’organizzazione politica e della divisione delle terre: l’arcipelago governato da più capi in competizione tra loro si è così trasformato in una monarchia costituzionale guidata da un re convertito al cristianesimo, circondato da un folto gruppo di nopele (translitterazione in tongano della parola inglese noble, fino a quel momento inesistente nel vocabolario) con privilegi e diritti fondiari, rappresentato da quei capi che avevano deciso di sottomettersi alla sua autorità.
La popolazione comune, da sempre organizzata in grandi famiglie estese in un regime di coltivazione collettiva, viene nuclearizzata e sottoposta a un nuovo regime di gestione atomizzata della terra. Se, da un lato, questo passaggio ha affidato ai singoli capi famiglia la scelta di cosa coltivare frammentando una pianificazione agricola che sino a quel momento aveva avuto la forza della visione collettiva delle risorse, dall’altro ha sancito il principio di inalienabilità della terra.
Tuttora, ogni primogenito maschio ha diritto, con l’implicito impegno di provvedere a tutti i fratelli e le sorelle, a una porzione di terra da coltivare e una da abitare. La terra nelle mani dei tongani ha garantito, almeno in parte, nel corso del tempo, la sovranità alimentare della popolazione, minata però da due fattori su cui adesso si sta localmente molto dibattendo: l’indirizzo politico in materia agricola degli ultimi sessant’anni, orientato a seguire le ricette della Green economy, e l’invasione di prodotti a basso costo nel mercato alimentare locale a partire dall’adesione alla Wto.
La monocoltura da esportazione e la liberalizzazione dell’importazione di enormi quantità di cibo spazzatura a basso costo hanno avuto effetti nefasti sulla salute della popolazione locale
La monocoltura da esportazione, in sostituzione del sistema rigenerativo tradizionale dell’agroforesta, e la liberalizzazione dell’importazione di enormi quantità di cibo spazzatura a basso costo hanno avuto effetti nefasti sulla salute e sulla autonomia digestiva della popolazione locale. Inoltre, l’allarme lanciato dall’Organizzazione mondiale della sanità nei primi anni Duemila circa una supposta epidemia di obesità nelle isole del Pacifico ha reso ulteriormente vulnerabile la popolazione, da un lato perché ha spostato l’attenzione dalle responsabilità politiche del regno nella creazione di un paesaggio alimentare insalubre alla responsabilità dei singoli, tornando a dipingerli come indolenti e primitivamente privi di autocontrollo alimentare; dall’altro perché nel misurare i corpi si è utilizzato un indice (Imc) semplicistico e impreciso, che non tiene conto, per esempio, del peso osseo o della proporzione tra massa grassa e magra. L’Imc ha trasformato i grossi corpi della popolazione in obesi, contribuendo a sancire una epidemia di obesità sulla base dei soli parametri di peso e altezza del corpo, e creando una correlazione tra il peso del corpo e l’alto tasso di malattie non trasmissibili.
Nelle mie ricerche ho rilevato come quest'ultima correlazione sia viziata dagli indici utilizzati e, piuttosto, alle isole Tonga si assista a una "democratizzazione del corpo grosso": se prima infatti il corpo espanso era appannaggio dei capi, l’accesso alla terra delle singole famiglie sancito dalla Costituzione ha garantito una continuità alimentare e incrementato la possibilità di incarnare l’idealtipica grandezza corporea. Pertanto, la diffusa malnutrizione risultante dagli accordi commerciali con i Paesi del Primo mondo che si affacciano sul Pacifico, che sono gli stessi a giocare un ruolo di primo piano nell'economia degli aiuti erogando denaro, più che rappresentare la causa della grandezza corporea della popolazione è la causa diretta di diabete e malattie cardiovascolari.
Ciononostante, alcune pratiche locali – vecchie, nuove e inventate – sembrano costituire dei fattori di resistenza (e resilienza?): la dieta, nonostante le introduzioni e le ibridazioni con il cibo raffinato e inscatolato, ruota ancora saldamente attorno ai tuberi (taro, igname e patata dolce) e agli ortaggi coltivati localmente (foglie di taro, ibiscus edibile e alghe); vi è un interesse nel recupero, e nella reinvenzione, di una memoria agricola rigenerativa e poli-colturale; e infine la terra resta saldamente nelle mani della popolazione, grazie alla lungimiranza sancita dai capi costituenti. Si tratta di monitorarne gli sviluppi e di capire se alcuni di questi "ingredienti" oceaniani siano esportabili e condivisibili per risolvere problemi comuni.
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