Una disputa annosa. In occasione del recente World Economic Forum di Davos il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, ha dichiarato che non sempre l’esistenza di intimi rapporti economici, come nel caso di Germania e Gran Bretagna un secolo fa, è condizione sufficiente a prevenire lo scoppio di un conflitto. Questa “precisazione,” giunta dopo quasi sette decenni dalla fine della cosiddetta Guerra del Pacifico, è dovuta proprio al fatto che i protagonisti di quel conflitto hanno cominciato nuovamente ad azzuffarsi, anche se per il momento soltanto a livello retorico. Cinesi e giapponesi, in particolare, hanno preso a provocarsi più veementemente del solito, e presto anche gli americani – volenti o nolenti – sono stati coinvolti in questa baruffa. La Cina è legata dal punto di vista economico sia al Giappone che agli Stati Uniti, ma ciò non costituirebbe in sé una garanzia per una pace duratura; d’altronde, considerata la tradizionale alleanza tra Washington e Tokyo, un eventuale conflitto tra Cina e Giappone potrebbe innescare una reazione anche da parte degli americani.
Questa profonda incrinatura nei rapporti nippo-americani ha avuto inizio il 26 di dicembre dell’anno scorso, quando lo stesso Abe si è recato in visita presso il santuario Yasukuni, in cui sono sepolti (anche) alcuni criminali di guerra. L’Ambasciata statunitense a Tokyo ha immediatamente espresso, attraverso un comunicato, tutto il suo dissenso per questa visita inopportuna, che avrebbe sicuramente “esacerbato le tensioni tra il Giappone e i suoi vicini”. Seiichi Eto, consigliere speciale del primo ministro, ha replicato alle dichiarazioni statunitensi postando un messaggio su YouTube, in cui ribadiva con forza come siano i giapponesi a “dover essere indignati”. L’amministrazione Abe si è affrettata a dichiarare come quel messaggio non esprimesse la posizione ufficiale del governo, ma fosse stato scritto a titolo strettamente personale. Il video è stato immediatamente rimosso. Solo qualche tempo dopo, tuttavia, Naoki Hyakuta, romanziere ultraconservatore nominato dal governo all’interno del board dirigenziale della televisione di Stato, ha dichiarato come gli Stati Uniti abbiano sottoposto a processo i leader giapponesi dopo la Seconda guerra mondiale solo al fine di coprire il proprio crimine, cioè aver sganciato le due bombe atomiche sul Paese asiatico. Un terzo personaggio nominato da Abe, Katsuto Momii, presidente dell’azienda radiotelevisiva, ha dichiarato durante una conferenza stampa che il Giappone non dovrebbe essere criticato così ferocemente per la questione delle “donne di conforto” – cioè quelle donne, principalmente coreane, ma anche cinesi e filippine, avviate alla prostituzione per soddisfare le truppe giapponesi colonizzatrici, e spesso deportate in Giappone. Secondo la tesi di Momii, infatti, tali pratiche sarebbero ammesse in ogni zona di guerra, e ha concluso dicendo che gli stessi soldati statunitensi si sarebbero macchiati di tali crimini, ma le loro autorità avrebbero occultato le prove. Dopo queste incredibili dichiarazioni il primo ministro Abe ha severamente ripreso Momii, sommerso da violente critiche, chiedendogli di tenere separati i suoi sentimenti personali dalle sue responsabilità professionali come presidente del servizio pubblico radiotelevisivo.
È utile ricordare, comunque, che lo stesso Abe, nel 2007, durante il suo primo mandato da primo ministro, aveva negato qualunque responsabilità del Giappone nella questione delle “donne di conforto,” nonostante una risoluzione del Congresso statunitense avesse invitato i nipponici ad offrire pubbliche scuse per quelle incresciose vicende. Di recente, il presidente Obama ha trasformato in legge una mozione sugli stanziamenti per l'anno fiscale in corso nei cui documenti aggiuntivi si incoraggia il Giappone a prendere seriamente in esame la questione delle donne di conforto.
Le “dispute” nippo-statunitensi, tuttavia, sono poca cosa se confrontate al rapido inasprimento dei rapporti tra i giapponesi da una parte e i cinesi e i coreani dall’altra. Se prendiamo in esame ciò che è accaduto solo alcuni giorni fa, scopriamo per esempio che il ministero degli Esteri nipponico ha pubblicato un documento in cui la dicitura “relazioni reciprocamente vantaggiose basate su interessi strategici comuni” – comunemente usata per descrivere la natura dei rapporti tra Cina e Giappone – è stata improvvisamente rimossa. La Cina, da parte sua, ha annunciato di stare espandendo un museo nella città di Harbin, in cui vengono esibiti oggetti riconducibili ad esperimenti chimici e batteriologici che i giapponesi avrebbero condotto durante la guerra principalmente su prigionieri di nazionalità cinese e coreana. Il Giappone si è costantemente rifiutato di ammettere la veridicità di tali esperimenti.
In Corea, il ministero degli Esteri ha diffuso un duro comunicato in cui si dichiarava come “sia inaccettabile il rifiuto giapponese di riconoscere di aver avviato alla schiavitù sessuale alcune donne coreane”. La dichiarazione è stata resa pubblica dopo che un funzionario giapponese ha rivelato che il governo del suo Paese stava progettando di riesaminare le testimonianze di 16 vittime coreane. Questa revisione è stata vista come un passo sostanziale verso il ripudio della dichiarazione del 1993 (la cosidetta Dichiarazione di Kono) di Yohei Kono, allora capo di Gabinetto, il quale offrì le sue scuse – a nome del governo nipponico – alle donne “che avevano subito un dolore incommensurabile e verso le quali erano state inferte ferite fisiche e psicologiche insanabili.”
Sulle questioni storiche gli Stati Uniti sembrano essersi allineati con la Cina e la Corea del Sud. sulle dispute territoriali – come quella in atto tra Tokyo e Pechino sulle isole Senkaku/Diaoyu nel Mar Cinese Orientale – Washington ha invece dichiarato di non voler prendere posizione. È palese, comunque, che Stati Uniti e Giappone rimangono legati da un forte sentimento di unità, visibile nel concreto anche nelle esercitazioni militari, durate un mese, recentemente conclusesi.
Le tensioni tra il Giappone e la Corea del Sud, entrambi alleati degli americani, rendono però particolarmente difficile, allo stato attuale, la costruzione di relazioni cooperative, aumentando la frustrazione di Washington.
La regione asiatica è una cornice che vive di delicatissimi equilibri, in cui tutti gli attori coinvolti devono muoversi con enorme attenzione. In questo momento la necessità più impellente è che Abe tenga alla briglia i suoi alleati, mettendo un freno anche a se stesso. Il primo ministro giapponese ha lanciato un messaggio positivo in Parlamento alcuni giorni fa, dichiarando di non avere intenzione di annullare le scuse fornite dai precedenti governi, includendo presumibilmente la Dichiarazione di Kono. Queste promesse, però, dovrebbero essere seguite da fatti concreti, come per esempio l’impegno di non visitare nuovamente Yasukuni. Se ciò non accadrà, come Abe sa perfettamente, la pace nella regione può essere messa a dura prova, nonostante i forti legami economici.
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