Solo due opinioni sono generalmente diffuse riguardo all’Expo di Milano. O si tratta del mero luogo di incontro tra cemento, debito, precarietà e sessismo oppure è la grande occasione di riscatto dell’Italia a livello internazionale. Questo crea due schiere di persone così polarizzate e dogmatiche da essere incapaci di dubitare delle proprie posizioni, quindi di ascoltare, quindi di comunicare tra loro; talmente tanto che i primi sono riusciti a fare una manifestazione contro qualcosa che non avevano visto (la manifestazione No Expo si è tenuta in contemporanea con l’apertura dell’Expo), mentre i secondi hanno preso in tale considerazione gli argomenti dei loro critici che hanno deciso di inaugurare l’evento nel giorno della Festa dei lavoratori.
Contro queste due schiere, opposte ma in realtà unite da quel dogmatismo che rende saldi e sordi, sono andato a Milano nei giorni dell’inaugurazione per capire cos’è questo evento di cui tutti già parlavano, innanzitutto chiedendomi quale possa essere la funzione di un Expo oggi; se da un punto di vista storico la prima Esposizione universale di Londra nel 1851 ha inventato la tipologia del “centro commerciale” e instaurato un format per la circolazione delle novità nel mondo, oggi che il centro commerciale definisce i nostri weekend e che le novità circolano più velocemente su internet, credo che la funzione di Expo sia naturalmente cambiata.
A parte il marketing territoriale – banalmente detta promozione turistica – io credo che un Expo oggi potrebbe essere un’incredibile occasione di discussione intorno a un tema (che in questo caso è il cibo) e che è stato scelto probabilmente bene, sia perché l’Italia ha qualcosa da dire in materia, sia perché è un argomento importante su cui sarà necessario presto prendere decisioni a livello globale. Il problema è esattamente che se siamo divisi in due gruppi dalle sicurezze indubitabilissime non possiamo discutere, ma solo urlare senza ascoltare; allora ogni possibilità di fare di questo incontro qualcosa di interessante decade, e ci ritroviamo davanti all’aridità di quello che già sappiamo più qualche cartolina e filmato per venderci un soggiorno in Malesia o un cappellino di paglia.
Sì, perché molte delle argomentazioni di No Expo sono in realtà fondate e condivisibili. Una volta che ci diciamo onestamente che non si può scrivere No Expo (perché una volta che si chiede di ospitare un Expo si deve naturalmente essere conseguenti); che concordiamo sulla bontà del tema per coincidenze temporali e geografiche; che applaudiamo chi l’ha reso possibile tra tutte le difficoltà; che rendiamo omaggio al fatto che, tutto sommato, l’evento era pronto in tempo nonostante i molti filmati allarmisti circolati in rete; una volta che guardiamo all’evento con una certa speranza per il suo successo; insomma una volta che diventiamo ragionevoli e collaborativi e ci liberiamo di quell’atteggiamento fanciullesco formato io non ci sto, vado a fare il mio castello di sabbia da un’altra parte, possiamo tranquillamente manifestare e parlare dei molti problemi di Expo. Perché di problemoni mi pare che ce ne siano.
Trovo giusto unirsi ai critici della prima ora nel dire che l’Expo potesse essere concepito a livello urbano, in altre parole per operare trasformazioni nel tessuto cittadino auspicate da tempo ma magari mai portate a termine per carenza di soldi o volontà politica. Piscine, biblioteche, parchi, piste ciclabili. Un Expo diffuso?
Trovo anche giusto associarsi agli architetti che hanno stilato il masterplan originario e al video, apparso nelle scorse settimane, in cui gli stessi spiegano velocemente la differenza tra le loro intenzioni e il formato chilometro delle stranezze / fiera di paese che è stato finalmente realizzato.
Questa volontà meramente economica – ma economica nel senso più bieco, nemmeno capace di prospettiva per il futuro – che ci ha condotto al chilometro di giostre e stranezze edilizie per sè in cui sguazza la maggior parte dei padiglioni (con alcune eccezioni tra cui Austria, Svizzera, Brasile, Polonia, Estonia e forse altri che diverranno più visibili una volta completati) è la stessa responsabile di altre stranezze, o vergogne, a livello organizzativo. Gli stipendi ridicoli dei lavoratori, il sito di Expo tradotto da Google, i render circolati anzitempo e non finiti, i gruppetti di volontari disinformati, a cui verrebbe da dare indicazioni anziché chiederle, o magari nel dettaglio la presenza di un solo addetto ai pass stampa nel giorno dell’inaugurazione sono solo alcuni degli aspetti che denotano una mancanza di professionalità di chi gestisce con criteri economici da aziendina di famiglia un evento di respiro internazionale.
Ma, ciò che dispiace ancora di più è il semplice fatto che in termini gastronomici l’Italia, per ciò che conosco e amo, sia assente. Non è la mancanza, pur grave, di un concorso per assegnare gli spazi a Eataly che mi preoccupa, quanto la presenza stessa di Eataly all’interno degli spazi italiani. Questi abili imprenditori vogliono far passare l’idea che la gastronomia italiana sia composta da una serie di eccellenze da pagare a caro prezzo appannaggio di pochi cuochi blasonati: gli unici autorizzati dal Capo a consegnare al mondo la nostra identità.
Mi viene in mente una scena ipotetica di due turisti anglosassoni in cerca dell’Italia che ordinano the best, forse due piatti di linguine all’astice, in qualche artificiosa veranda sul mare. Alle loro spalle, alla fine del turno i gestori con qualche amico sorridono bonariamente guardandoli, con un piatto di spaghetti fatto magari con gli avanzi della serata. Ecco, Farinetti vorrebbe farci credere che i turisti avevano ragione. Che l’Italia non sia dal punto di vista gastronomico quel miracolo di piccole e successive invenzioni di molti per rendere la farina incredibile, e che il cibo sia una scatola sullo scaffale dal grande valore aggiunto pronta per essere santificata dal ragazzo di turno che guarda troppo Jamie Oliver. Naturalmente Farinetti non è scemo e sa benissimo che il suo percorso garantisce il più alto ritorno economico, ma avrà sulla coscienza – io credo – di aver mentito al mondo intero su una delle cose più belle, il popolare che diventa sublime.
Nei suoi venti ristoranti retoricamente regionali non c’è alcuna semplicità. Non c’è convivialità. Non c’è specificità. Non c’è la cucina di mia nonna, che è la migliore in Italia ovviamente. La sera vado a cena da Piero e Pia, due storici e modesti signori milanesi la cui cucina non potete perdervi. Il classico posto da cui ti alzi col sorriso. Ecco, per intenderci Piero e Pia all’Expo non ci sono.
Se però l’Italia di Renzi, Farinetti e Bottura non è interessata a discutere e bolla di invidia e passatismo chiunque non sia d’accordo con loro, all’Italia che è interessata a riflettere rimane la chance dell’ascolto e della moderazione come alternativa radicale; se i primi sono sordi, possiamo solo appellarci ai rivoltosi perché facciano il primo passo, e allora voglio permettermi di dare un suggerimento al passato, che in quanto tale non serve a nulla ma che spiega meglio di ogni astrazione quello che auspico.
Se, per ipotesi, i manifestanti del No Expo non si fossero chiamati No Expo e non si fossero vestiti come quando a quindici anni andavamo a manifestare contro la Moratti, ma magari come si vestono tutti i giorni per andare a lavoro, allo stage o all’università; se anziché dotarsi di queste convenzioni di protesta ormai neutralizzate e da tempo assorbite dal sistema che contestano si fossero anche loro chiesti cos’è e cosa può essere un Expo nel 2015; e se si fossero anche chiesti cosa può essere una protesta nel 2015 ed esattamente contro chi volevano protestare, anziché urlare contro tutti quei bastardi del magna-magna, allora forse gli sarebbe venuto in mente qualcosa di più preciso ed elegante.
Io ho provato a fare questo esercizio e ho immaginato tutti quelli che non sono sul trenino renziano entrare a Expo nel giorno dell’inaugurazione, quando tutte le telecamere non potevano che essere puntate lì. Con un atteggiamento critico e aperto allo stesso tempo. Senza urlare contro Renzi quando passa. Andare in giro a parlare con i visitatori di ogni parte del mondo sulla base degli spunti che trovavano nei vari padiglioni. Magari con una maglietta fatta per l’occasione, che desse un’unità a questo gesto. Usando il servizio di sicurezza di Expo per tenere automaticamente fuori i violenti e i manganelli, ed evitare ogni imbarazzo. A quel punto, ci sono solo due possibilità: se la sicurezza li avesse discriminati in veste di civili visitatori, avrebbero vinto. Se fossero entrati instaurando l’unica discussione interessante in quell’orgia di marketing, avrebbero vinto anche di più.
Sarebbe stata, però, necessaria l’umiltà di chi s’interroga al tempo stesso su di sé e sugli altri; un’umiltà che dovrebbe essere scontata ma appare invece radicale proprio nella sua assenza.
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