Anche ieri ero in giro per aeroporti europei, come mi capita un paio di volte al mese. Crocevie di varia umanità e strana comunità dei viaggianti. Ognuno per ragioni diverse – alcune le puoi scorgere dai vestiti, dall’umore, dalle parole che rubi da un discorso, dai gesti; altre ti rimangono sconosciute, invito a immaginarsi il perché di un transito in questi strani luoghi di circolazione dell’umano. E impari presto che questo muoversi più disparato può trasformarsi improvvisamente in un destino comune. Un paio di messaggi per tranquillizzare le persone care che questa volta non ero passato per Bruxelles; uno sguardo allo smartphone per raccogliere una qualche prima informazione; poi i voli, tempo per pensare nel cielo che la nostra epoca ha chiuso con la presenza di Dio. Senza accorgerci che così ci siamo trascinati il sacro primordiale, violento e sacrificale, nella quotidianità sempre più accelerata dei nostri giorni quotidiani. Senza un Dio che se ne prenda cura, che sappia assumersene la responsabilità davanti a noi. Così abbiamo voluto e potuto.
Per mestiere mi spetta anche il compito di tornare con i ragazzi a lezione in università su eventi come le stragi di ieri nel cuore istituzionale dell’Europa. La teologia è una delle poche discipline che non può restare immune davanti al senso e al non senso di ciò che accade. Semplicemente non puoi andare avanti con la routine delle lezioni programmata a inizio semestre. Devi essere capace di inquietanti e difficili interruzioni. Soprattutto, maledizione del teologo, devi trovare parole – e devi aiutare a generarle nei ragazzi che hai di fronte. Ma si può dire o scrivere qualcosa, in casi come questi, che sia davvero un’interruzione? Qualcosa che rompa con la valanga di informazioni approssimative, speculazioni di ogni genere, commenti che non si possono non fare anche se non sarebbe il momento – e, allora, perché tanta foga nel precipitarsi sui media di ogni genere?
La violenza della morte, soprattutto quando è repentina e inattesa, senza giustificazione e ingiustificabile, ci lascia senza parole. Alla lettera. È quello che chiamiamo lutto, che inizia proprio così: con lo smarrimento del linguaggio quotidiano, generando un silenzio al limite della sopportazione. Ma solo sostando in esso, portandone tutto il peso, può iniziare in noi l’elaborazione di quel lutto, dell’insensato in cui esso ci trascina. Abbiamo bisogno di questo silenzio come del pane che mangiamo per stare in vita. Ed è proprio questo che non ci è concesso e non ci concediamo in questo momento. Tutto è riempito di parole, siamo bombardati di immagini e ci immergiamo in esse cercandovi un improbabile rifugio. E se fosse proprio questo il tragico, la grande debolezza dell’Occidente – aver smarrito la capacità e l’arte del lutto? E con essa la possibilità di una sua condivisa elaborazione? Quella che davvero potrebbe accomunarci in un destino comune e condiviso di quel che resta dell’Europa. Quella che potrebbe generare un senso di cittadinanza che ci accomuna tutti nella devozione silenziosa verso l’umano barbaramente ferito e violato.
A quel che rimane delle religioni, perché anche di esse oggi restano solo barlumi, non dovremmo chiedere né giustificazioni, né prese di posizione. Siamo onesti con noi stessi e con loro: sono solo parole. Quello che dovremmo chiedere a esse, in questo momento, è di rieducarci al lutto e alla sua elaborazione, alla vulnerabilità del singolo e del corpo sociale, all’accettazione del limite che tutti siamo (non alla giustificazione delle incompetenze che ognuno di noi mette in campo ogni giorno). Proviamo, noi società laica ed emancipata, a chiedere questo alle religioni e vediamo di che pasta esse sono fatte. Mettiamole alla prova sul loro terreno più proprio, quello della preghiera per i morti, per le vittime dell’ingiustizia più crudele. Con l’onesta di riconoscere che di questo non siamo proprio più capaci.
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