Capire chi comanda, innanzitutto. Firmando le nuove sanzioni contro Teheran, Obama ha rinnovato l'interrogativo che angustia le cancellerie mondiali. “Conosciamo tutte le dinamiche interne relative all'Iran? Assolutamente no, e il Paese è molto più diviso ora di quanto non fosse in passato. Capire chi prenda le decisioni è molto difficile”. Un quesito tutt'altro che irrilevante, quello posto dal presidente americano: dall'affermarsi dell'una o l'altra delle due linee che si confrontano nel gruppo dirigente di Teheran dipende la soluzione del tragico dilemma pace/guerra in Medioriente. Uno scontro, quello tra fazioni, che può generare inediti schieramenti di fronte alla prospettiva di un conflitto che potrebbe causare la fine della Repubblica islamica.
Ahmadinejad e Khamenei sono costretti a una coabitazione che mostra i limiti di un'architettura costituzionale che non sopporta divergenze tra leadership a legittimazione politica, quella del Presidente, e quella a legittimazione religiosa, incarnata dalla Guida. Ma è una coabitazione sempre più difficile. Non solo in politica interna, ma anche nella politica estera e sul nucleare. Per evitare l'isolamento iraniano Ahmadinejad si muove a tutto campo, guardando al Sudamerica e all’Egitto post-Mubarak sino alla Cina, alla quale spera di vendere il petrolio al quale ha rinunciato l'Europa. Un Iran in veste antimperialista e antiglobalista, più che nel ruolo di fautore della solidarietà islamica caro a Khamenei. Come ricorda anche la recente visita del presidente nel “giardino di casa” degli Stati Uniti: quel Sudamerica “anti-yankee“ che va da Chavez a Castro passando per Ortega.
Sul nucleare Ahmadinejad è oggi, al di là della propaganda ideologica, il leader potenzialmente più disponibile alla trattativa. Il Presidente sa che non solo la guerra ma la concreta minaccia di essa, segnerebbe la sua emarginazione. Se la situazione precipitasse, il richiamo alla coesione della nazione sotto il mantello della Guida, sarebbe un riflesso obbligato. Mettendo fine a quel progetto di khomeinismo senza clero perseguito dal Presidente che non prevede l'emarginazione, impossibile, dei turbanti ma un loro ridimensionamento a favore di una leadership “laica” investita dal consenso plebiscitario del popolo. Una partita che si gioca anche sul terreno religioso, con i rivoluzionari senza turbante, fedeli a un messianismo fondato sulla tradizione sciita prekhomeinista, incentrata sull'idea dell'imminente ritorno del Mahdi, il dodicesimo Imam che, secondo la credenza religiosa, ricomparirà per instaurare il Regno della Giustizia. Un'enfasi che infastidisce il clero conservatore, poichè svalorizza oggettivamente il ruolo dei turbanti ai quali Khomeini ha chiesto con successo nel 1979, operando una rottura della tradizione, di prendere tra le mani “qui e ora”, il governo delle cose terrene. Altra frattura evidente è legata al rilancio da parte di Ahmadinejad di una retorica nazionalista, più persiana che islamica, perseguita anche dal suo ex vicepresidente e consuocero Mashae'i, che Ahmadinejad punta a candidare alle presidenziali del 2013. Una retorica che mira a conquistare i ceti medi sensibili all'argomento e delusi dall'attuale presidente, non solo per il suo radicalismo ma anche per una politica economica che ha mandato in soffitta i sussidi ai prezzi amministrati e redistribuito il reddito a favore dei “diseredati”, i ceti meno abbienti. Facendo così impennare i prezzi e lievitare l'inflazione.
Ma simili fratture possono tradursi in posizioni diverse sul nucleare? Washington ritiene potenzialmente Ahmadinejad un interlocutore; ma sa anche che il suo antisionismo militante lo rende inviso a Israele, che non si fida e intende risolvere, comunque,a suo modo la questione. Vi è poi l'incognita Khamenei, pur di mettere all'angolo il suo rivale, la Guida potrebbe cambiare le carte in tavola all'ultimo istante, presentandosi come unico garante di una soluzione negoziata. A patto che prima Ahmadinejad sia messo fuori gioco. Khamenei si proporrebbe così come salvatore della Repubblica Islamica e del potere dei conservatori religiosi, mandando in soffitta l'incontrollabile nazionalpopulismo di cui il Presidente è espressione.
In questi frangenti giocheranno un ruolo decisivo i Pasdaran, tornati sotto pieno controllo della Guida, dopo che nel 2005 i loro effettivi avevano scelto Ahmadinejad. Il “partito degli elmetti” sembra puntare all'elezione presidenziale del 2013 di un uomo più affine: sempre che che prima Khamenei non riesca a modificare la Costituzione abolendo la carica di Presidente, che il Rahbar ritiene un “inutile doppione”, o la crisi acceleri la resa dei conti. In tal caso il favorito potrebbe essere il leader del Parlamento Ali Larijani. O, preferibilmente, qualcuno del gruppo guidato dal’ex comandante del Corpo Rezai e dal sindaco di Teheran Qalibaf che, in polemica con Ahmadinejad, si definisce “vero pasdaran”. Qalibaf è un pasdar “laico”, sostanzialmente indifferente alla battaglia dei costumi voluta dai conservatori religiosi, ma che non ne delegittima il ruolo. Un'alleanza, quella tra conservatori religiosi e “veri pasdaran” decisa a fare piazza pulita dell'“anomalia” Ahmadinejad, che potrebbe avere la prova generale nelle elezioni parlamentari di marzo. Nelle quali buona parte dei candidati è riconducibile ai Pasdaran o al loro sistema di potere.
In ogni caso entrambe le fazioni hanno bisogno di tempo per ridimensionare il peso dei rivali-alleati e dare vita a una leadership politicamente e ideologicamente omogenea. Solo allora potranno negoziare o prepararsi alla resa dei conti con Israele o gli Stati Uniti. Ma l'Iran dispone ancora di tutto questo tempo?
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