«Diciamo che ho preso coscienza che non mi devo obbligare a immaginarlo per forza [il futuro], quindi sto cercando di… pianificare sì, perché mi sono sposata quindi… mi sono anche trasferita qui anni fa, ho dei progetti che riguardano il mio futuro, ho comprato casa, ma li sto trattando come se fossero progetti un po’ più a breve termine… Cioè, ora sono qui, ora faccio questo, ma domani probabilmente potrei anche cambiare idea. Ecco, mi sento… Sia a livello personale sia nel lavoro che faccio, i lunghi lunghi progetti non abbiano un vero sbocco, se non nella vita realmente privata, quindi con mio marito, ecco, tutto lì» (Irene, Milano)
«Vedo molta frustrazione, non so, come se… Tante vite… però questa è veramente una mia opinione, come se tante vite di ragazzi che hanno la mia età, dei miei coetanei, siano state un po’ spezzate… C’è chi voleva fare di tutto, voleva girare il mondo, voleva creare, voleva fare e poi per legami, per altre cose, si sono frenati. Perché a un certo punto si comincia a pensare che forse è giusto che sia così: sposiamoci, facciamo figli, troviamo la stabilità. E io invece ho paura di scoprire che la stabilità mi sta stretta. E quindi anche là, la scelta non è stata compiuta perché non ho ancora capito se lo voglio fare il salto di qualità. Perché adesso mi fa paura, prima con l’incoscienza e con gli occhi a cuore ero proprio per quella strada, era l’unica via…» (Aurelia, Napoli)
«I don’t really see it [being a mother]. The truth is that I think I don’t have children right now because I don’t see myself in this role. I barely take care of myself. I would return to childhood again and get rid of all my responsibilities. That’s which I’m not interested in, having more responsibilities, to take care of someone. Especially because I know people who have become mothers and become very, I don’t know, very hysterical, very control freak. It’s something that makes me panic – become like that» (Julia, Barcellona)
«Sometimes I’m not quite sure, and I question myself, am I sure? I want to choose it, I don’t want to do it because someone else is pressuring me, I’d like to have children because I see my future with kids, with a family» (Gloria, Barcellona)
Tra settembre 2016 e giugno 2017 sono state raccolte 64 storie di donne tra i 30 e i 35 anni in Italia e Spagna nell’ambito del progetto «Future and Family». Lo studio intendeva far luce sulle scelte riproduttive nei due Paesi emblema di quel modello familista che ha tra le sue prerogative tassi di natalità al di sotto degli indici di sostituzione, un mercato del lavoro poco ospitale per le donne e politiche di supporto alla genitorialità carenti. Tra le ipotesi guida, il progetto poneva la centralità del nesso tra crisi finanziaria e ambientale e bassa fecondità. L’intenzione era quella di capire in che modo tali elementi strutturali definiscano le scelte riproduttive in contesti in cui le politiche fanno fatica a correggere la cosiddetta lotteria naturale e a migliorare le chance di vita indipendentemente da tratti ascrittivi quali talenti, sesso, etnia, posizione socio-economica.
In questa ricerca abbiamo cercato un punto di osservazione che bilanciasse prossimità e distanza, che guardasse contemporaneamente alle biografie e al paesaggio più vasto dei contesti socio-economici. Il tentativo era capire come decisioni, false partenze, speranze e timori si dispieghino nel gioco serrato tra individuale e collettivo, particolare e generale, privato e pubblico.
Le storie che abbiamo raccolto raccontano di scelte riproduttive non immediatamente riducibili a fenomeni strutturali, siano essi la recessione economica o la condizione delle donne nel mercato del lavoro, le politiche sociali o l’incertezza geopolitica e ambientale. Per comprendere queste scelte abbiamo guardato più da vicino alle ragioni, ai desideri, alle paure che raramente sono il risultato automatico di calcoli «freddi» costi-benefici, ma che si dipanano nello scambio affettivo di relazioni «calde» con partner, familiari, amiche, mentori. Questa visione «dall’interno» è meno rasserenata ma più verace, suona poco affidabile perché lascia filtrare le incoerenze, è suscettibile alle revisioni biografiche. È una versione dei fatti che risente di riscritture della propria storia così come la si vorrebbe raccontata e non solo come è stata.
Delle intervistate senza figli, la maggior parte (24 su 35) postpone, dichiara cioè di volere figli, ma non ora. Abbiamo incluso nella categoria di chi postpone tutte le intervistate che hanno dichiarato di volere figli, ma non subito – diversamente dai demografi, che definiscono il postporre come la decisione di non avere figli nei successivi 2-4 anni. Per le nostre intervistate la decisione di maternità è rimandata a un futuro non molto prossimo e non molto definito. La diffusa decisione di postporre in cui ci siamo imbattute si allinea con le teorie consolidate della «postponment transition», che stabiliscono un nesso diretto tra bassa fecondità ed età avanzata delle donne alla nascita del primo figlio. Italia e Spagna si contraddistinguono per un tasso di fecondità pari a 1,34 – contro il 1,6 della media europea – e per l’età mediana delle donne alla nascita del primo figlio più alta d’Europa (31 anni in Italia e 30,8 in Spagna, contro una media europea di 29 anni).
Per le nostre intervistate la decisione di maternità è rimandata a un futuro non molto prossimo e non molto definito. Le donne che postpongono i figli vengono sia dal Sud sia dal Nord e hanno status socio-economici, livelli di istruzione e situazioni lavorative e abitative eterogenee
Le interviste mostrano come le donne che postpongono vengano sia dal Sud sia dal Nord dei due Paesi e abbiano status socio-economico, livelli di istruzione e situazioni lavorative eterogenee. Anche le loro condizioni abitative variano. In alcuni casi vivono in affitto o in case di proprietà con i loro partner, in altri casi co-abitano con amici e amiche.
In parte delle storie italiane e spagnole di chi postpone si sente l’eco delle spiegazioni diffuse sulla bassa fecondità del Sud Europa: lo scarso sostegno delle politiche alle madri e ai padri, le persistenti diseguaglianze di genere, un modello di Welfare familistico, oltre agli effetti ostinati della grande recessione del 2008. Ma in alcune storie questi elementi non appaiono preponderanti.
«We don’t make a lot of money, but enough. We have enough to live, travel, to leave on the weekends, eat out when we want to, and indulge our whims» (Julia, Barcellona).
Tanto in Italia quanto in Spagna, a postporre non sono necessariamente giovani donne cui mancano la stabilità economica o emotiva o la realizzazione professionale; in alcuni casi svantaggio materiale o esigenze professionali giocano un ruolo importante, in altri no.
«This is actually one of the many things that made me think about having the possibility of having children, because having them implies allocating less time to other things in your life, and in my case I won’t have much time to develop my professional projects or other creative projects I’d like to do, knowing that my partner will be able to be more involved in childrearing implies I won’t have to give up on my other projects» (Catarina, Barcellona)
Quello che tutte le nostre intervistate che postpongono sembrano avere in comune è il «volersi prendere del tempo» prima di scegliere di avere figli. In alcuni casi il tempo è necessario per trovare un lavoro o una soluzione abitativa più consona, in altri per viaggiare e occuparsi di sé. A prescindere dalle circostanze particolari, dai dati emerge che la maternità non è un bisogno o un’azione irriflessa, ma oggetto di una scelta, influenzata dalle condizioni personali di chi la compie, tanto quanto dalle opzioni disponibili e dai contesti in cui avviene.
Ne emerge uno scenario in linea con la tesi della cosiddetta «seconda transizione demografica». Nel passato, le opzioni «non avere figli» o «prendersi del tempo per valutare se e quando avere figli» erano raramente disponibili. Avere figli era la cosa naturale da fare, la scelta automatica, spesso poco esaminata: l’unica opzione realmente aperta e incoraggiata dal contesto, non sappiamo fino a che punto effettivamente la più desiderata. L’alta fecondità dei Paesi mediterranei potrebbe essere stata un effetto di adattamento al contesto, per dirla con il teorico politico Jon Elster, e non una «vera scelta».
Sfortunatamente le preferenze adattive sono per lo più impossibili da distinguere dalle preferenze autenticamente libere. Il contesto attuale è tale per cui esistono nei fatti alternative all’essere madre meno stigmatizzate. Le donne sono più libere dai ruoli prescritti di madri o mogli, possono scegliere di aspettare prima di dare un contenuto positivo alla loro scelta di essere madre/non madre. L’ipotesi che vorrei avanzare è che oggi i contesti, nel caso italiano e spagnolo, determinano meno le scelte di fecondità e lasciano le donne più libere di decidere e spesso più esposte alla sospensione della decisione. Contrariamente alla retorica diffusa secondo cui le donne in Italia e Spagna non fanno figli perché non possono e perché non sono libere, vorrei suggerire che lo spazio vuoto lasciato dalle politiche sociali che le sostengono nella scelta di maternità, dalla parità imperfetta tra i generi in famiglia e nel mercato del lavoro apre uno spazio di libertà, quantomeno di libertà negativa. Una libertà intesa come «non interferenza», come possibilità di diventare quello che si sceglierà di essere.
Contrariamente alla retorica diffusa secondo cui le donne in Italia e Spagna non fanno figli perché non possono, vorrei suggerire, che lo spazio vuoto lasciato dalle politiche sociali di sostegno alla scelta di maternità, dalla parità imperfetta tra i generi in famiglia e nel mercato del lavoro apre uno spazio di libertà
Le storie raccolte sono storie che vengono a monte della scelta e che si collocano nel momento in cui varie possibilità sono disponibili. La distinzione tra i due tipi di libertà, quella negativa e quella positiva, è utile per riflettere sulla complessità che emerge dai racconti delle protagoniste: alcune raccontano di vite sospese e bloccate e guardano quasi con invidia a chi vive fuori dall’Italia e ha una strada più segnata, perché i contesti sono più supportivi, le aspettative sociali più prescrittive.
«Sì, ne parliamo spesso; in realtà tutti abbiamo voglia di… ehm… di un figlio, ne parlavamo ieri, a cena! Eh sì, tutti abbiamo voglia di avere figli, e paradossalmente le persone che vivono fuori da Napoli la vedono proprio come un fatto reale! Qualcosa di concreto! Ed era bello perché Spagna, Belgio, Londra… loro che ne parlavano proprio “Sì, ci proveremo, l’idea già c’è!” e invece i napoletani che ci guardavamo e dicevamo “Questi sono pazzi, dove vanno?” però… fa sempre il confronto… allora forse è qui che è così, non è ovunque!» (Lilia, Napoli)
In queste storie la «libertà» può essere vissuta come tirannica, non diversamente dal modo in cui ci si sente sopraffatte davanti allo scaffale di un negozio di abbigliamento che metta a disposizione troppi modelli e colori di jeans (cfr. B. Schwartz, The Paradox of Choice: Why More is Less, Harper Perennial, 2004). Se il rischio del cliente è uscire dal negozio a mani vuote, il rischio di alcune delle nostre intervistate è di postporre fino a un punto di non ritorno («Un figlio tra 10 anni, un figlio a 40 anni, è un buon programma», ci dice Roberta, di Napoli).
Decidere di avere figli è più difficile oggi, in posti come l’Italia e la Spagna in particolare: è una scelta che avviene senza i «parapetti», come li chiamerebbe Hannah Arendt, di contesti e politiche, o del mero esempio altrui che la sostengano. Una scelta libera e rischiosa perché sta a ciascuna trovare soluzioni originali per combinare maternità, lavoro, vita personale. Questa potrebbe essere una delle spiegazioni del perché le giovani intervistate sentano di dover «prendere tempo» prima di avere figli. Le specifiche circostanze socio-economiche, le conseguenze di crisi finanziarie, politiche, ecologiche e i limiti della fertilità giocano un ruolo in queste storie, ma non sembrano sufficienti a capire che cosa sta succedendo. Le donne che postpongno la maternità sembrano fronteggiare dilemmi più privati, che hanno a che vedere con modi di immaginarsi la vita, la genitorialità, la carriera, le passioni. In questo sforzo l’influenza esercitata da amici e famigliari pesa almeno quanto le circostanze strutturali.
Il disallineamento tra l'ideale dichiarato, avere figli, e la realtà, rimandarli, potrebbe non essere l'effetto di un comportamento frustrato dalle circostanze, ma il segno che le donne nei Paesi a tradizione familista stiano nei fatti liberandosi dell’interferenza che l’idea/ideale di madre esercita sulle loro vite. Sono donne che postpongono perché possono scegliere di non-essere automaticamente madri, anche se l’orologio biologico incalza. E questo posporre è libertà, non negazione di libertà. Quando guardiamo da vicino questa libertà, non sorprende che le storie di chi postpone siano storie di dubbi, desideri, fughe all’indietro, inazione. Storie difficili che rispecchiano i rischi che si corrono quando si vivono e si raccontano le vite che di questi paradossi e spaesamenti sono piene.
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