In un articolo che uscirà fra poco sul «Corriere della Sera» ho saltato a piè pari ciò che riempie oggi le cronache politiche dei giornali e sarà probabilmente il tormentone delle prossime settimane. Ho dato dunque per scontato che la riforma elettorale si farà e grosso modo avrà le fattezze, non proprio affascinanti, dell’accordo Renzi-Berlusconi. Questo mi serviva per mostrare la logica del patto tra i due: il ritorno forzoso al bipolarismo della Seconda Repubblica (al “duopolio” centrodestra/centrosinistra, come lo definisce Passera sul «Corriere» del 24 scorso) e con esso l’eliminazione di quell’«incidente» – Grillo – che ha sconvolto i risultati elettorali del febbraio 2013. Anche se non dichiarato al momento della prima presentazione – sistema spagnolo? Ma non facciamo ridere! – il ballottaggio di coalizione è sempre stato il pilastro occulto dell’accordo: se le due prime coalizioni saranno quelle di centrodestra e centrosinistra, la partita, come in passato, si giocherà tra di loro e Grillo sarà fuori gioco. E mi serviva anche a mostrare che Grillo è tutt’altro che un incidente: se una sua prevalenza su entrambi i duopolisti è improbabile, tra essi vincerà quello che manderà un messaggio capace di recuperare la maggior parte dei suoi precedenti elettori che sono passati ai 5 Stelle. E in tal caso l’«incidente» sarà stato benemerito, perché non poche delle istanze raccolte da Grillo sono sacrosante ed esprimono domande reali e giustificate dei nostri concittadini. Per sviluppare il mio ragionamento, però, ho dovuto saltare a piè pari il tormentone e dare per scontato ciò che proprio non lo è: che Renzi e Berlusconi riescano a portare a casa una riforma elettorale che assomigli molto a quella delineata dal loro patto, e questo è un problema di previsione. E ho del tutto tralasciato il problema di valutazione, se sia un bene o un male per l’efficacia dell’azione di governo forzare il sistema politico in un letto di Procuste bipolarista. Su entrambi i problemi, di previsione e valutazione, le incertezze si affollano e la discordia delle opinioni è massima. L’opinione che esprimo – nel breve spazio di questa nota – sicuramente non convincerà chi, “di pelle”, è più vicino ad un’opinione diversa.

Sul problema di previsione i dubbi sono numerosi, e si scioglieranno soltanto nel cruciale passaggio del Senato. Alla Camera Renzi e Berlusconi, se il Pd non decide di suicidarsi, dovrebbero portare a casa la riforma con aggiustamenti che non ne modificano i tratti essenziali: ad esempio, alcuni di quelli che Violante propone, sempre sul «Corriere« del 24 scorso. Il problema è il Senato. Qui i senatori di sicura fede renziana sono meno di una trentina su 108. Ce ne sono 60 di Forza Italia e 31 del Nuovo centro destra (Ncd). Se non ci fossero pesanti defezioni tra i senatori Pd e Ncd – oltretutto preoccupati, come tutti i loro colleghi, per l’imminente (?) destino dei loro scranni –, il gioco sembrerebbe fatto. Dev’essere raggiunta una maggioranza di 160 (315 eletti, 5 senatori a vita, meno il presidente) e non dovrebbero esserci defezioni in Forza Italia: anche se non provenissero consensi dalla fungaia degli altri gruppi (Scelta civica, Autonomie, Popolari, Gal, gruppo misto), i voti di Pd, Forza Italia e Ncd basterebbero e avanzerebbero. È realistico contare sull’assenza di forti defezioni tra i senatori Pd e Ncd? Ricordando che al Senato si vota in modo palese, a me sembra si tratti di una previsione abbastanza realistica – una insubordinazione rispetto alle direttive del gruppo avrebbe costi individuali pesanti – e passo al problema di valutazione.

Per come è adesso, si tratta di una cattiva legge, tagliata su misura degli interessi elettorali dei due grandi partiti della Seconda Repubblica e con il duplice obiettivo (a) di costringere Grillo all’opposizione (dove peraltro sta benissimo) e, (b), ugualmente consentire il governo o di una coalizione di centrodestra, o di una di centrosinistra, evitando la necessità che, allo scopo di raggiungere il primo obiettivo, esse siano costrette a un governo di larghe intese, com’è avvenuto dopo le elezioni del 2013. Dati questi interessi e obiettivi immediati, e data l’urgenza dei tempi, difficilmente poteva uscirne una buona legge. È ovviamente criticabile sotto il profilo della rappresentanza: era già poco rappresentativo un governo di larghe intese, di centrodestra più centrosinistra, immaginate come può esserlo un governo di solo centrodestra o solo centrosinistra! Ed è criticabile sotto quello della governabilità, nel cui nome è stata proposta: certo, meglio che le larghe intese, ma non abbiamo appena finito di criticare la scarsa coerenza interna delle due grandi coalizioni di centrodestra e centrosinistra, costrette, per vincere, a grattare il fondo dei loro barili? Non era questo uno dei difetti capitali della Seconda Repubblica?

La legge può essere certamente migliorata… ma anche peggiorata. Chi la critica deve però porsi la seguente domanda: data la fretta (che non è solo un’ubbia di Renzi, ma una esigenza del Paese) e dati i veti che bloccano leggi sicuramente migliori, è possibile fare di meglio? Se non sanno rispondere a questa domanda in modo credibile, le sue critiche risultano assai deboli.