Nel suo articolo apparso su questa rivista il 25 luglio, Paolo Pombeni analizza il problema della democrazia e della sua crisi nella fase attuale. In particolare, individua due elementi che starebbero all’origine di tale crisi: “La resa crescente che è presente in molti settori della cultura occidentale alla tesi della dimensione del tutto relativa e priva di paradigmaticità del modello occidentale; il via libera che ciò ha dato alla ripresa di un confronto fra le nazioni su basi neoimperiali”. Mentre trovo la maggior parte delle considerazioni sviluppate nell’articolo ben fondate e condivisibili, vorrei fornire una prospettiva diversa, in parte complementare ma non interamente compatibile con quella dell’articolo in questione, sull’attuale crisi delle liberaldemocrazie.

Per Pombeni la critica intellettuale che si è sviluppata all’interno delle liberaldemocrazie nei Paesi avanzati ne ha ridotto il valore paradigmatico a livello globale e questo ha aperto la via a modelli alternativi che assumono diverse forme (democrazie illiberali, fondamentalismo religioso, regimi autoritari, sistemi totalitari) e che hanno finito per determinare la ripresa del confronto fra le nazioni su basi neoimperiali. Quest’analisi solleva immediatamente due questioni: (1) per quali ragioni la cultura occidentale avrebbe abbandonato l’esemplarità del modello liberal-democratico? e (2) basta questo abbandono per spiegare l’ascesa di modelli politici alternativi, seppur con valenze meno universalistiche della liberaldemocrazia?

Per cercare di dare una risposta a queste due domande bisogna a mio avviso risalire al fattore scatenante che ha innescato nel contempo la crisi delle liberaldemocrazie nei Paesi avanzati e quella del global liberal order creatosi con la fine della Guerra fredda. Questo fattore scatenante è stata la Grande crisi finanziaria (Gcf) del 2008-2009.

I critici radicali della liberaldemocrazia nei Paesi avanzati ci sono sempre stati. Tuttavia, dalla caduta del Muro di Berlino fino alla Gcf, essi sono restati ai margini del sistema politico (nelle elezioni tenutesi nei Paesi occidentali negli anni precedenti la Gcf i partiti populisti ed etno-nazionalisti ricevevano percentuali molto basse, al limite dell’irrilevanza) e al più si sono ritagliati uno spazio (limitato) nel dibattito culturale. Questo perché le liberaldemocrazie sembravano disporre di una narrativa potente e coerente al punto da apparire quasi infalsificabile: il neoliberismo. Essa teorizzava il connubio tra un regime costituzionale di tipo liberaldemocratico e un’economia in cui il ruolo del mercato era destinato a espandersi in continuazione (mentre quello dello stato doveva continuare a ridursi). I processi di globalizzazione favorivano l’espansione dei mercati, aumentavano l’efficienza dell’economia e rendevano le nazioni interdipendenti, riducendo il rischio di conflitti armati. La rapida crescita economica nei Paesi emergenti favoriva l’ascesa delle classi medie ed era convinzione diffusa che queste ultime non si sarebbero accontentate di un accresciuto benessere materiale e avrebbero richiesto più diritti civili e politici, minando così le basi dei regimi autoritari. Internet, consentendo all’informazione di sfuggire al controllo dei governi, veniva visto come una grande opportunità per promuovere la democrazia. Infine, i mercati disponevano di una capacità autoregolatrice che avrebbe evitato crisi sistemiche.

Quando libero mercato e liberaldemocrazia si autoalimentavano, creando un’espansione dei regimi democratici e un’integrazione dei mercati globali mai visti prima, i regimi autoritari erano sulla difensiva

In una situazione in cui libero mercato e liberaldemocrazia sembravano autoalimentarsi, creando un’espansione dei regimi democratici e un’integrazione dei mercati globali mai visti in precedenza, i regimi autoritari erano sulla difensiva. Non a caso, prima di morire, Deng Xiaoping aveva consigliato alla leadership cinese di tenere un profilo basso, di “nascondere la propria forza e aspettare il momento opportuno”, perché aveva correttamente anticipato che quello era il solo modo di preservare il regime comunista in Cina. La strategia perseguita dai Paesi autoritari nel periodo di espansione democratica fu allora quella di limitare la penetrazione delle idee “occidentali” e di trovare modi per riprendere il controllo di Internet, utilizzandolo eventualmente per far avanzare i fini del regime e individuare eventuali oppositori. Nel contempo però, in economia, facevano proprio almeno parte del paradigma neoliberista (casomai violandone di nascosto alcune delle regole al fine di trarne il massimo vantaggio economico). La Cina fu il Paese che attuò questa strategia nel modo più efficace e conseguente: fino alla Gcf tenne un profilo internazionale basso (sulla questione che le stava più a cuore, la riunificazione di Taiwan si limitò a dichiarazioni di principio, raramente appoggiate da manovre militari aggressive), mentre continuava ad aprirsi ai capitali dei Paesi avanzati (sovente appropriandosi della tecnologia di questi ultimi in modo più o meno lecito), in modo da massimizzare la crescita e diventare la fabbrica del mondo.

La Gcf spezza il connubio tra la liberaldemocrazia e un sistema economico fondato su principi neoliberisti. Anzitutto, il paradigma neoliberista, che escludeva in assoluto la possibilità di una crisi sistemica (data la capacità autostabilizzante dei mercati), si trovava falsificato. Inoltre, la Gcf faceva emergere tutta una serie di problemi che il neoliberismo aveva nascosto sotto il tappeto: dalle crescenti diseguaglianze al degrado ambientale globale, dalla desertificazione delle regioni industriali nei Paesi avanzati alla crescente influenza economica e politica esercitata dalle fasce più ricche della popolazione, con ripercussioni deleterie sul sistema democratico. La narrativa neoliberista era entrata in una crisi irreversibile ma, in assenza di un’alternativa credibile, continuò a essere il punto di riferimento dei gruppi dirigenti politici ed economici negli anni immediatamente posteriori al collasso del 2008-2009. Infatti, una volta stabilizzata la situazione grazie a politiche di stampo keynesiano, si cercò di ristabilire l’ordine economico antecedente la crisi, casomai limitando alcuni degli eccessi del neoliberismo, in particolare in campo finanziario. Si fece sostanzialmente l’errore di trattare la Gcf come una Grande recessione (sovente i due termini vengono erroneamente considerati sinonimi), con un forte impatto economico negativo, ma rapidamente riassorbibile, e non come una crisi sistemica, le cui ripercussioni – economiche e politiche – si sarebbero manifestate in un periodo molto più esteso e con effetti destabilizzanti molto più ampi, così come avvenne durante la Grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso.

Quando una narrativa egemonica crolla, emergono narrative alternative che cercano di rimpiazzarla. Alcune di esse si situano nell’alveo della liberaldemocrazia, ma altre ne sono ben al di fuori

Quando una narrativa egemonica crolla, narrative alternative emergono o riemergono, cercando a loro volta di rimpiazzarla. Alcune di esse si situano nell’alveo della liberaldemocrazia (basti pensare alla teoria keynesiana negli anni Trenta), ma altre sono ben al di fuori di essa. Le narrative che stanno alla base dell’ascesa dei movimenti populisti (più o meno di sinistra) e delle forze etno-nazionaliste e sovraniste fanno parte di queste alternative. L’incapacità delle forze politiche mainstream di centrodestra e di centrosinistra di dotarsi di una nuova narrativa credibile e coerente, in grado di formulare politiche in grado di affrontare in modo decisivo i problemi generati da trent’anni di politiche neoliberiste, ha purtroppo lasciato spazio alle narrative che rimettono in discussione allo stesso tempo il neoliberismo e la liberaldemocrazia e propugnano politiche di nazionalismo economico da realizzarsi attraverso un regime politico di democrazia illiberale.

Se la genesi del disincanto verso il modello occidentale può essere fatta risalire alla Gcf, è questa la causa che ha dato il via a quello che Pombeni definisce il confronto tra nazioni su basi neoimperiali? In realtà, il disincanto e la progressiva disgregazione dell’ordine liberale globale avvengono in parallelo. I regimi autoritari che avevano fatto buon viso a cattivo gioco durante il periodo dell’espansione democratica si rendono conto che con la Gfc la situazione è cambiata drammaticamente. Come il vicepremier cinese Wang Qishan fece notare al segretario del Tesoro americano Hank Paulson durante un incontro nel mezzo della Gcf: “You were my teacher, but now here I am in my teacher’s domain, and look at your system, Hank. We aren’t sure we should be learning from you anymore”. E un anno dopo, alla conferenza degli ambasciatori, il presidente cinese e segretario del Partito comunista cinese, Hu Jintao, evidenziò che c’era stato un cambiamento maggiore negli equilibri internazionali di potere e che le prospettive dell’affermazione di un mondo multipolare si erano rafforzate. Questa constatazione condurrà a una revisione prima graduale (sotto Hu Jintao) e poi radicale (sotto la nuova leadership di Xi Jinping) della strategia internazionale cinese. E, mutatis mutandis, altre autocrazie mutarono anch’esse le loro strategie, adottando un approccio molto più aggressivo, che nel caso della Russia sfocerà nell’invasione dell’Ucraina nel 2022.

Anche se non sembra esistere un rapporto causale tra il disincanto verso il modello liberaldemocratico nei Paesi avanzati e il ritorno della competizione tra grandi potenze in quanto entrambi hanno la loro origine nella Gcf, si possono ciononostante notare fenomeni di contaminazione tra le due dimensioni. Per esempio, l’ascesa dei movimenti etno-nazionalisti, la Brexit e l’elezione di Trump porteranno la leadership cinese e quella russa a concludere che l’Occidente è in declino, che il loro sistema di alleanze è reso più fragile e che ampi strati della popolazione dei Paesi avanzati non danno più fiducia nella liberaldemocrazia e appoggiano forze populiste ed etno-nazionaliste. Sic stantibus rebus, la conclusion di Xi Jinping è stata che “the world is undergoing great changes unseen in a century, but time and momentum are on our side”. E poiché time et momentum sono dalla parte della Cina, il “momento opportuno” è finalmente arrivato. Non c’è dunque più bisogno di “nascondere la propria forza”: la Cina è una grande potenza e ha una serie di rivendicazioni che vuole vedere riconosciute, se necessario con mezzi non pacifici, e può contare sul fatto che l’Occidente è diviso e ha perso la fiducia nel sistema politico che era uscito vincente dalla Guerra fredda.

In conclusione, se l’analisi sviluppata qui sopra è corretta, allora l’abbandono dell'esemplarità del modello occidentale non avviene in seguito a un disincanto delle élite intellettuali verso di esso, ma a causa di un fenomeno traumatico, di carattere economico e politico, che ha mandato in frantumi il consenso che si era creato attorno ad esso. Ed è questo stesso fenomeno traumatico che ha prodotto il ritorno alla competizione tra grandi potenze, che era forse inevitabile, ma che in assenza della Gcf avrebbe richiesto molto più tempo per materializzarsi.

La cattiva notizia è che nel breve periodo non vi sono prospettive di un rapido miglioramento della situazione internazionale e che la competizione tra grandi potenze e’ destinata a continuare. Anche nel caso in cui Trump non dovesse ritornare alla Casa Bianca, la restaurazione dell’ordine globale liberale non è all’ordine del giorno. Come ha notato il consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, Jack Sullivan, “[the] post–Cold War era is now definitively over. Strategic competition has intensified and now touches almost every aspect of international politics, not just the military domain. It is complicating the global economy. It is changing how countries deal with shared problems”. Se si teme che l’apertura economica del Paese possa venire utilizzata dai rivali strategici per rafforzare la propria posizione politico-militare (attraverso per esempio l’acquisizione di tecnologie di punta), creare situazioni di dipendenza in certe produzioni strategiche o introdurre misure di coercizione nel caso dispute e di conflitti, l’adozione di contromisure (per esempio le politiche di de-risking) diventa necessaria. La sicurezza nazionale -che in questo caso coinvolge anche quella dei propri alleati- e lo stesso sistema democratico non possono essere messi a repentaglio sulla base di mere considerazioni di efficienza economica.

La buona notizia è che la liberaldemocrazia non è indissolubilmente legata al neoliberismo e, cosi come fece nel secolo scorso, ha il potenziale di sviluppare una nuova narrativa egemonica (e le politiche che vengono con essa) e porre fine alla recessione democratica che stiamo attraversando. Tuttavia, questa nuova narrativa è ancora in gran parte da costruire. Condivido dunque pienamente l’invito di Pombeni a “rilanciare una riflessione coraggiosa sul modello della democrazia costituzionale così come si è sviluppata negli ultimi due secoli”.