In un articolo apparso sul sito della rivista “il Mulino” all’inizio dell’anno (Diverso parere. A proposito del neoliberismo) Angelo Panebianco solleva la questione del neoliberismo in Italia. Mentre in alcune parti del mondo (in primis gli Stati Uniti e la Gran Bretagna) tra l’inizio degli anni Ottanta e la Grande crisi finanziaria del 2008-2009 vi è stata una fase di forti liberalizzazioni e un parziale ritiro dello Stato dall’economia che è stato definite come “neoliberismo”, secondo Panebianco una tale fase non si è mai materializzata nel caso dell’Italia. “Come è possibile – si chiede Panebianco – prendere sul serio i critici del cosiddetto neoliberismo quando essi mettono nel mazzo anche l’Italia? Qui da noi nulla del genere ha mai attecchito”.
La negazione della presenza del neoliberismo in Italia non mi sembra convincente per due ragioni. Anzitutto, è difficile pensare che la narrativa neoliberista e le politiche da essa prescritte, che per trent’anni hanno dominato la scena economica internazionale sia nei Paesi avanzati sia in quelli emergenti (ivi inclusa la Cina), non abbia avuto un impatto importante anche sull’Italia, un Paese fortemente integrato nell’economia internazionale. I processi di globalizzazione, la creazione di catene globali dell’offerta, la deregolamentazione del sistema finanziario, la riduzione della tassazione del capitale, legata in parte a fenomeni internazionali di competizione e arbitraggio fiscale, sono fenomeni legati al neoliberismo e i gruppi dirigenti – politici ed economici – di tutti i Paesi hanno dovuto fare i conti con essi.
In un tale contesto, è difficile pensare all’Italia come a una sorta di prototipo del “non-neoliberismo in un Paese solo”. In secondo luogo, come nel resto dei Paesi avanzati, durante i trent’anni di egemonia della narrativa neoliberista, l’Italia ebbe la sua dose di privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazione, riduzione dell’imposizione fiscale, tagli al Welfare state: tutte misure che fanno parte integrante dell’arsenale neoliberista. E non poteva essere altrimenti, perché i costi economici di strategie realmente alternative in un mondo sempre più globalizzato e finanziarizzato sarebbero state molto elevati. Di questo si resero conto Mitterrand negli anni Ottanta e i leader dei partiti di centrosinistra in Europa e negli Stati Uniti quando arrivarono al governo nel corso degli anni Novanta. “If you can’t beat them, join them”, casomai cercando di mitigare l’impatto sulle diseguaglianze o sulla disoccupazione: si pensi al proposito alla flexicurity danese.
In Paesi come l'Italia, che non furono parte dell’avanguardia della rivoluzione neoconservatrice degli anni Ottanta, le politiche neoliberiste vennero adottate un po’ à la carte
Questo non significa che nei diversi Paesi le politiche neoliberiste furono applicate nello stesso modo, con la stessa intensità e/o seguendo la stessa sequenza. Inevitabilmente ogni narrativa egemonica, sia essa quella neoliberista o quella del compromesso socialdemocratico che la precedette, o il laissez faire dell’età dell’imperialismo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, deve adattarsi alle realtà politiche, sociali e culturali di ogni Paese, nonché alla varietà di capitalismo che lo caratterizza. Di conseguenza, anche nei Paesi che fecero più progressi nell’adozione delle prescrizioni neoliberiste, non vi fu mai piena corrispondenza con il modello di società prefigurato dai suoi teorici: per esempio, negli Stati Uniti il sistema pubblico di sicurezza sociale introdotto da Roosevelt resterà in vigore nonostante i tentativi di privatizzarlo, lo stesso dicasi per il sistema sanitario nazionale britannico. Come nel caso del “compromesso socialdemocratico”, in cui i Paesi scandinavi che servivano da modello lasciarono comunque ampi spazi al mercato, mutatis mutandis, nel caso del neoliberismo il progetto dei suoi teorici non poté essere portato a pieno compimento. Per questo, anche nei Paesi anglosassoni siamo in presenza di un neoliberismo spurio e sarebbe forse più corretto parlare di “compromesso neoliberista” piuttosto che di “neoliberismo” tout court.
In Paesi come l'Italia, che non furono parte dell’avanguardia della rivoluzione neoconservatrice degli anni Ottanta, le politiche neoliberiste vennero adottate un po’ à la carte, sia in risposta agli sviluppi economici internazionali, sia per ragioni ideologiche e/o calcoli elettorali, sia per conformarsi alle regole del mercato unico europeo e dell’Unione economica e monetaria (si pensi per esempio ad alcune privatizzazioni volte a ottenere le risorse per conformarsi ai criteri di Maastricht e adottare così l’euro). Mentre si può discutere se in Italia le politiche neoliberiste siano state sufficientemente ambiziose, resta nondimeno il fatto che tali politiche furono introdotte e adottate. Di conseguenza, è certamente legittimo a mio avviso mettere l’Italia “nel mazzo” dei Paesi con politiche neoliberiste.
La questione che si pone allora è quella degli effetti e dell’efficacia delle politiche neoliberiste adottate in Italia dai vari governi e le loro conseguenze di breve e lungo periodo. Indipendentemente dal giudizio di merito che si può dare sulla fase del compromesso neoliberista nel suo insieme e sui fattori che ne hanno determinato la sua ascesa e declino (queste questioni sono trattate in modo approfondito nel libro scritto insieme a Michele Salvati, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Feltrinelli, 2021), bisogna riconoscere che vi sono Paesi che sono riusciti a inserirsi con successo nel nuovo ecosistema che l’egemonia della narrativa neoliberista veniva via via formando, mentre in altri le politiche neoliberiste adottate hanno finito per esacerbare problemi strutturali pre-esistenti.
L’Italia fa parte dei Paesi in cui le politiche neoliberiste, anche per il modo in cui furono adottate, hanno prodotto risultati positivi limitati, mentre in molti casi le misure intraprese hanno esacerbato problemi esistenti. Laddove avevano delle potenzialità, esse sono state poco e male utilizzate e gli interessi corporativi e le rendite di posizione hanno finito per avere la meglio, in alcuni casi appoggiandosi su elementi della retorica neoliberista, per esempio insorgendo contro l’interferenza dello stato (o di Bruxelles) nelle pratiche italiane di mercato (che poi di mercato non erano).
L’Italia fa parte dei Paesi in cui le politiche neoliberiste hanno prodotto risultati positivi limitati, mentre in molti casi le misure intraprese hanno esacerbato problemi esistenti
La deregolamentazione e le privatizzazioni in diversi casi furono utilizzate non per aumentare il benessere del consumatore e per favorire l’efficienza produttiva, ma per favorire gli interessi del produttore/dei produttori nazionali. Basti pensare alla deregolamentazione delle frequenze televisive (legge Mammì), che servì a creare un duopolio Rai-Mediaset (risolvendo en passant la difficile situazione finanziaria di quest’ultima) e non a creare un settore audiovisivo pluralistico e competitivo. O alla privatizzazione delle concessioni autostradali, che da un lato portò a elevati profitti per le società che le ricevettero e dall’altro a un sottoinvestimento strutturale (con relativi disastri e tragedie). Certo, alcune liberalizzazioni ebbero effetti positivi per il consumatore (per esempio le “lenzuolate” di liberalizzazioni di Bersani durante il secondo governo Prodi), ma nell’insieme i progressi furono relativamente modesti se comparati ad altri Paesi europei.
La riduzione dell’imposizione fiscale, precondizione e preludio alla riduzione del ruolo dello stato nell’economia (“starve the beast”), è sempre stato un cavallo di battaglia dei teorici del neoliberismo. Nella fase dell’egemonia della narrativa neoliberista, in linea con gli altri Paesi avanzati, anche in Italia la progressività dell’imposta sul reddito si è ridotta significativamente, con l’aliquota massima che è passata dal 72% del 1982 al 43% attuale (si veda al proposito C. Cottarelli, Chimere. Sogni e fallimenti dell’economia, Feltrinelli, 2023, cap. 6). I governi di centro-destra nell’età del neoliberismo non si limitarono però a questo. Prendiamo per esempio la quasi-abolizione della tassa di successione effettuata dal governo Berlusconi. A seguito di questa misura la tassa di successione in Italia è ormai una delle più basse in Europa. Questo, oltre a ridurre ulteriormente la progressività del sistema fiscale italiano, incentiva la perpetuazione del capitalismo familiare, che è una delle debolezze strutturali del sistema economico italiano. Tuttavia, il danno della narrativa neolibersita sul sistema di tassazione italiano italiano non si ferma qui. Se “lo Stato non è la soluzione”, ma il problema, se bisogna “affamare la bestia” e se le tasse sono un odioso balzello (o addirittura un “pizzo di Stato” secondo l’improvvida affermazione dell’attuale premier), allora è legittimo, fors’anche patriottico, non pagarle (o pagarle il meno possibile). La retorica neoliberista ha dunque fornito una giustificazione idelogico-intellettuale a uno dei mali endemici del nostro Paese: l’evasione fiscale. La narrativa neolibersita, assecondando e legittimando comportamenti di incivismo radicato, ha contribuito ad aggravare l’inequità fiscale ed è in parte responsabile per il deterioramento della posizione di bilancio del nostro Paese.
Il limite maggiore della versione italiana del neoliberismo è che l’insieme delle misure di liberalizzazione, privatizzazione, deregolamentazione, riduzione dell’imposizione fiscale non sono riuscite a produrre una strategia di crescita efficace
Ma il limite maggiore della versione italiana del neoliberismo è che l’insieme delle misure di liberalizzazione, privatizzazione, deregolamentazione, riduzione dell’imposizione fiscale non sono riuscite a produrre una strategia di crescita efficace, capace di inserirsi con successo nel nuovo ordine economico europeo e internazionale. Questi limiti sono stati ben dimostrati da Baccaro e Bulfone nella loro comparazione dei modelli di crescita dell’Italia e della Spagna nel periodo dell’egemonia neoliberista (L. Baccaro e F. Bulfone, Growth and Stagnation in Southern Europe: The Italian and Spanish Growth Models Compared, in L. Baccaro, M. Blyth e J. Pontusson Diminishing Returns.The New Politics of Growth and Stagnation,Oxford University Press, 2022, pp. 293-322. Si vedano in particolare le diverse strategie di privatizzazione perseguite nei due Paesi e gli esiti che ne sono conseguiti). Mentre la Spagna, pur tra limiti e contraddizioni, è riuscita ad attenersi a una strategia di crescita relativamente coerente, in cui politiche di stampo neoliberista come liberalizzazioni e privatizzazioni sono risultate funzionali al suo perseguimento, nel caso dell’Italia tale strategia è mancata. In sua assenza, il potenziale positivo delle politiche neoliberiste è andato rapidamente disperso, mentre gli aspetti negativi del neoliberismo, siano essi intrinseci a esso o invece il risultato non voluto di dinamiche che hanno condotto al rafforzamento di problemi strutturali preesistenti, si sono materializzati più fortemente che in altri Paesi, compresi quei Paesi con una varietà di capitalismo simile alla nostra.
Tutto questo non implica che tutte le politiche catalogate come neoliberiste siano da rigettare in blocco, in particolare in un Paese caratterizzato da pesanti rigidità strutturali come l’Italia. Una misura non è di per sé buona perché non appartiene all’arsenale neoliberista. Al contrario, nel quadro di una nuova narrativa egemone che prima o poi emergerà (e che sarà comunque il frutto di compromessi), privarsi di politiche quali quelle della concorrenza o di misure di liberalizzazione che intaccano interessi consolidati e rendite monopolistiche poiché si tratterebbe di “politiche neoliberiste” non aiuterebbe in alcun modo allo sviluppo del Paese e alla definizione di un nuovo modello di crescita, questo sì diverso da quello preconizzato dai teorici del neoliberismo.
Riproduzione riservata