1. Professoressa Sassen, lei ha definito «espulsioni» tutti quei processi che, nel mondo globalizzato, portano all’esclusione di un gruppo sociale da un contesto, che sia lavorativo, economico, culturale. Espulse sono le soggettività migranti, i disoccupati, i detenuti. È possibile estendere questo stesso concetto anche a tutte le vittime dell’attuale crisi ambientale, tutti coloro che si trovano costretti a fuggire dalla propria terra per ragioni climatiche o ecologiche? In definitiva, sono da considerarsi «espulsi» anche i migranti ambientali e climatici?

Negli ultimi anni è esplosa una nuova tendenza migratoria che ha alle sue origini proprio il cambiamento degli habitat di provenienza. È quella tendenza che vede protagoniste tutte quelle persone che non stanno scegliendo semplicemente di lasciare la propria terra per andare alla ricerca di un futuro migliore – per quanto ne abbiano tutto il diritto – bensì che sono state «espulse» dai luoghi in cui sono nate e cresciute. Il che è avvenuto a causa dell’enorme sviluppo impattante delle piantagioni, delle estrazioni minerarie, così come di numerose altre forme di sfruttamento e distruzione dei territori. Gli ultimi due decenni hanno visto crescere rapidamente il numero di persone (ma anche di imprese e luoghi) estromesso dai fondamentali ordinamenti sociali ed economici del nostro tempo. Queste diverse soggettività vengono «espulse» fisicamente al di fuori dai confini del proprio Paese. Un esempio molto vicino all’Italia è costituito dalla rotta migratoria che corre dall’Africa all’Europa. Fermo restando che chi abbandona alcuni Paesi africani sta fuggendo da guerre e conflitti, c’è però un altro livello da tenere in considerazione, quello delle persone africane obbligate a lasciare il proprio continente per ragioni climatiche o ambientali. È una motivazione che va loro riconosciuta, poiché di natura completamente diversa rispetto a quella economica, ad esempio. Non si tratta di persone che «scelgono» di spostarsi ma piuttosto di persone costrette a fuggire. Per questo sono rifugiate.

C’è poi il caso dell’America centrale e in modo particolare dell’Honduras. Comunemente si ritiene che questo Paese stia attraversando una buona fase di sviluppo economico, ma basta contare gli omicidi delle decine di attivisti per i diritti umani e di diversi ambientalisti per comprendere che questo sviluppo nasconde in realtà qualcos’altro. Nel corso degli anni, infatti, le grandi aziende e le multinazionali si sono ampliate sempre più, espropriando dai loro terreni tutti quei piccoli agricoltori che hanno così perso tutto. In questo caso quindi la crescita, paradossalmente, ha tagliato fuori i piccoli agricoltori locali. Costretti a lasciare le campagne e a spostarsi verso i grandi agglomerati urbani, questi piccoli agricoltori si sono poi trovati a fare i conti con la violenza estrema che vige nelle città. Qualcosa di molto simile accade in Salvador e in Guatemala, Paesi centro-americani fortemente problematici e socialmente complessi, dove i rifugiati tentano quotidianamente di mettersi in salvo dalle più svariate  tipologie di violenza, talvolta davvero difficili da riconoscere.

Chiaramente si tratta di una violenza che non viene esercitata solo dai grandi produttori sul singolo ma anche sull’ambiente circostante, attraverso attività distruttive per la natura e gli ecosistemi, come le concimazioni chimiche, le deforestazioni, l’inquinamento idrico. Siamo noi a doverci impegnare a cambiare tutte queste cose, anche se non so dire con esattezza come faremo. Di certo, la natura della crisi globale e il fatto che si sia riconosciuta l’esistenza di altre crisi fondamentali – fra le quali riveste massima importanza il cambiamento climatico – sembrano porre l’esigenza di adottare nuovi criteri di valutazione dei benefici economici.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 4/19, pp. 659-664, è acquistabile qui