Sono riuscito a plagiare questo libro di Walter Siti molto prima che uscisse.
Un paio di anni fa mi è capitato di trovarmi a cena, per caso, al suo stesso tavolo, e lui mi ha detto che tra le cose a cui stava pensando, o lavorando, c’era un libro che avrebbe potuto intitolarsi Contro l’impegno. «Ma con i miei tempi», ha aggiunto. Aggiunta un po’ bizzarra, perché tra le molte qualità di Siti c’è anche la rapidità, cioè una capacità di lavoro che gli ha permesso, nello spazio di un quarto di secolo, di darci più di una dozzina di libri tra romanzi, saggi e reportage. Non fluviale come il suo Pasolini, che scriveva al ritmo di due pagine al giorno, feste e vacanze incluse, ma quasi – non fluviale anche nel senso di più disciplinato, meno dispersivo: le ossessioni del personaggio «Walter Siti» formano un’opera compatta: nell’insieme, a mio avviso, l’opera più significativa nella letteratura italiana degli ultimi decenni.
In quel periodo io stavo lavorando a un libro sullo scrittore Tommaso Labranca, e ho rubato il titolo di Siti per farne un sottotitolo: Contro l’impegno s’intitola uno degli ultimi paragrafi del libro, quello in cui parlo del modo in cui Labranca riteneva che un intellettuale dovesse vivere la sua vita o più sobriamente, come si dice, interpretare il suo ruolo. Labranca era immune da tutti quei tic narcisistici che si assorbono soprattutto nei dipartimenti di Lettere delle università: non credeva che agli intellettuali spettasse il compito di liberare le masse dalle loro catene o di dire in che direzione andrà la storia; trovava patetici i rant anti-capitalistici dei suoi colleghi; non gli piaceva il modo in cui un’appartenenza politica di facciata, puramente verbale, senza veri riflessi sulla condotta di vita, riempiva le menti di retorica, conformismo, settarismo, e anche di pura e semplice stupidità; non sopportava le prediche, soprattutto quando queste prediche avevano l’approvazione del mainstream culturale, perché nella voce del predicatore percepiva le inflessioni del moralismo e della vanità.
Labranca ammirava molto Siti (lo ha intervistato nel 2013 nel numero 7 della sua webzine «Labrancoteque»), e avrebbe molto apprezzato l’intelligenza di Contro l’impegno (il libro di Siti, non il mio capitolo). Gli sarebbe piaciuto il sottotitolo «Riflessioni sul Bene in letteratura», e poi avrebbe sottoscritto praticamente tutte le opinioni che Siti argomenta così bene nel corso del libro: che l’idea (diffusa soprattutto a sinistra) che la letteratura debba avere una funzione pedagogica, e istradare al Bene, o avere una funzione terapeutica, o «riparare il mondo», o «combattere l’infelicità», o «coltivare l’empatia» è tanto sciocca e pericolosa quanto l’idea (diffusa soprattutto a destra) che la letteratura debba rispettare e anzi proteggere i valori etico-religiosi di una determinata comunità o Stato; che un giudizio storico serio non può essere un processo che il presente fa al passato ma deve prima di tutto misurarsi con le particolari condizioni nelle quali gli uomini hanno agito e con la loro visione del mondo, il che rende ridicola ogni censura sulla letteratura di età remote fatta in nome di criteri etici sconosciuti a quelle età («Riconoscere le ingiustizie della storia non può voler dire […] rovesciare sul testo i peccati dell’autore, del tipo “era d’accordo con la persecuzione degli ebrei, ha trattato sua moglie come uno straccio, ha lasciato i figli in un orfanotrofio, quindi il suo libro fa schifo e io lo espungo dalla biblioteca comunale”»); che la letteratura non è semplicemente il contenuto dei libri ma un contenuto messo in forma, e che nessun nobile o commovente o progressivo contenuto potrà mai farsi perdonare una forma sciatta o ingenua qual è quella di molta della mediocre letteratura di cui Siti discorre nel suo saggio («Sospinto da una passione antielitaria, ma forse anche per frettolosa abitudine a frequentare la lingua delle traduzioni, dei giornali e dei social, il neo-impegno diffida della sintassi troppo elaborata e di un’eccessiva cura formale»); che i modi della comunicazione in Rete hanno privato soprattutto i lettori più giovani della capacità o della volontà di percepire l’intero dell’opera d’arte, privilegiando una fruizione frammentaria, decontestualizzata e in fondo casuale che ha un’indole opposta rispetto all’estetica del frammento modernista, perché è tanto acquiescente, tanto prona ad adeguarsi alle mode culturali quanto quella era polemica e antagonista («L’attuale vittoria-senza-combattere del frammento ha qualcosa di fatale per non dire di rassegnato, vi prevale un sentimento di facilità; non è tragico ma ovvio, non serve per scardinare ma per soprassedere. I classici ormai sono come quei magnifici portali medievali in bronzo su cui tutti vanno a sfregare un’unica lucertolina, resa lucente dall’ansia di fortuna dei turisti»).
“I classici ormai sono come quei magnifici portali medievali in bronzo su cui tutti vanno a sfregare un’unica lucertolina, resa lucente dall’ansia di fortuna dei turisti”
Si obietterà: ma la letteratura buona, la letteratura edificante c’è sempre stata, o meglio c’è stata sin da quando il posto dei pochi intellettuali e dei pochi mecenati che formavano il pubblico dell’arte è stato preso da un pubblico vastissimo che dev’essere sedotto, intrattenuto, educato, e la letteratura è diventata, oltre che un mestiere per molti, un mezzo d’espressione importante per la vita di tutti, cioè un mezzo potente, capace di mobilitare, e perciò anche disposto, a volte, a sacrificare la qualità, a non curarsi della sottigliezza delle idee e della forma in nome della mobilitazione. Nella premessa al suo libro Siti cita La capanna dello zio Tom, che è un case-study celebre, perché questo «medio prodotto della letteratura umanistica ottocentesca», se non ha fatto scoppiare la guerra di secessione, come diceva Lincoln scherzando a metà, ha contribuito a cambiare la storia delle relazioni razziali agendo sui sentimenti degli americani più che sulle loro convinzioni razionali: come può fare la letteratura anche e soprattutto quando è mediocre o cattiva o «facile» (quante vocazioni rivoluzionarie nascono, nel secondo Ottocento, non solo sulle pagine di Hugo ma su quelle di Sue, di Bersezio!). E allora, che cos’è cambiato?
«Quel che oggi mi pare diverso e mi preoccupa – scrive Siti – è la consegna generalizzata di rivolgersi al maggior numero, semplificando ed esteriorizzando i testi. Un tempo i mecenati chiedevano prefazioni elogiative, finalità encomiastiche, ma la complessità non era scoraggiata; la domanda di ‘popolarità’ veniva piuttosto dalla Chiesa, o dai regimi totalitari – a quale Chiesa si obbedisce oggi, quale egemonia culturale svolge il committente […]? Sembra quasi che alcuni temi siano ‘buoni’ per definizione, e che individuati quelli la forma abbia il solo incarico di essere la più trasparente e comunicativa possibile».
È senz’altro vero, ma a me pare che la differenza più notevole tra la letteratura edificante di una volta e la letteratura edificante di oggi risieda nel tipo di contesto nel quale si colloca e nel tipo di reazione che sollecita nei lettori.
Da un lato, la letteratura edificante del passato svolgeva spesso una funzione autenticamente progressiva ed emancipatrice, per la buona ragione che era l’unica forma di comunicazione che fosse in grado di farlo, laddove oggi la letteratura edificante recupera temi e contenuti che grazie ai mass media circolano già da tempo nel dibattito, e perciò parla a un pubblico che è già convinto della bontà delle cause per le quali essa si batte. Preaching for the saved. Dall’altro lato, i lettori esperti di un tempo sapevano distinguere tra Harriet Beecher Stowe e Charles Dickens, tra l’onesta attivista e il grande romanziere; oggi non soltanto nelle librerie la paccottiglia sovrasta i libri di qualità («Ogni volta che entro in libreria, non so se sentirmi contento o depresso davanti all’orda di libri multicolori che mi scodinzolano intorno»), ma un’analoga indistinzione si osserva, oltre che in televisione e su Instagram, anche nelle pagine culturali dei quotidiani e – Siti non tocca la questione, che però è cruciale, e perciò ci tornerò sopra – nelle aule scolastiche.
Ho come l’impressione, infatti, che, capovolgendo la regola, il Siti romanziere dica tutta la verità mentre il Siti saggista alla verità preferisca la gentilezza. Lo capisco, e in parte lo approvo: perché essere sgradevoli, perché litigare, in un ambiente in cui già tutti litigano?
Se Contro l’impegno l’avesse scritto Labranca, sarebbe stato molto meno bravo di Siti, perché non conosceva bene come Siti la letteratura, ed era meno profondo. Ma sarebbe stato meno indulgente, e credo che avrebbe fatto bene. Ho come l’impressione, infatti, che, capovolgendo la regola, il Siti romanziere dica tutta la verità mentre il Siti saggista alla verità preferisca la gentilezza. Lo capisco, e in parte lo approvo: perché essere sgradevoli, perché litigare, in un ambiente in cui già tutti litigano? Ma leggendo i suoi giudizi – critici ma in fondo clementi – su Saviano, su Murgia o su D’Avenia mi sono tornate in mente quelle pagine di Bontà in cui il direttore editoriale Ugo sfoglia i dattiloscritti capitati sul suo tavolo e reagisce così alla sciatteria e al velleitarismo del romanzo neoverista Diamante: «È forte la Cris [la sua assistente] ma non si sentirà morire; i nati dopo il 1980 non notano più la differenza, non si straniscono per la letteratura che suona a vuoto, per le parole trascinate al guinzaglio, forzate a performance contronatura»; così al racconto splatter La ricetta del planteur: «… ma mi facci il piacere. Bisogna saper stare all’altezza del male che si racconta. I brutti libri servono a garantire che la letteratura non possa produrre il suo effetto e non sia costretta a servire il suo sulfureo Padrone»; così al romanzo-verità sui migranti: «Quelle horreur […]. Influire, influire è il nuovo verbo. Usano la letteratura come un mezzo, non la traguardano come un fine; la considerano uno strumento per confermare, non un acido per corrodere. Se i pozzi sono vuoti, i rabdomanti del represso dovranno pure testare nuovi terreni; recuperare in ampiezza quel che si sta perdendo in profondità».
Non mi sarebbe dispiaciuto leggere anche in Contro l’impegno, ogni tanto, parole severe come queste, perché devo dire che molti dei brani che Siti cita nel corso del suo saggio – in particolare quelli in cui lo/la scrivente gonfia il petto in pose virtuose che, più che ricordare Pasolini, a me ricordano irresistibilmente la nostra Musa nazionale, Gabriele D’Annunzio – molti di quei brani mi hanno, per rubare le parole a Ugo, «fatto morire».
Le ragioni di questa a volte eccessiva indulgenza stanno forse anche in un dato generazionale del quale è giusto tenere conto. Contro l’impegno è un libro scritto da una persona anziana che è anche un eccellente studioso di letteratura. L’essere uno studioso è importante, perché Siti ha passato la vita a leggere libri seri, e a scriverne, e si capisce che non abbia molta pazienza con la caricatura di narrativa con la quale il suo ruolo di recensore per il quotidiano «Domani» e per la rivista «L’età del ferro» lo mette in contatto. Ma per capire il senso del libro, il fatto che Siti sia una persona anziana è forse ancora più importante. Lui stesso lo ripete più volte, manifestando il dubbio di essere legato a un ideale di letteratura «pura» ormai estinto («Forse semplicemente sono obsoleto con la mia fiducia nella letteratura solo scritta»), chiarendo di non voler passare assolutamente per reazionario («Io, che di anni ne ho settantadue, sarei parecchio tentato di recitare il ruolo del custode di rovine, del difensore della profondità eccetera; se non fosse che dietro simile ruolo traspare quello, abbastanza ripugnante, del laudator temporis acti»), ironizzando sul suo essere un «letterato vecchio stampo», scusandosi per le sue «osservazioni inutilmente puntigliose» a proposito del pamphlet Gridalo di Saviano, e osservando che «forse soltanto un giovane, uno che abbia un lungo futuro da riempire di progetti, può capire la forza di questo libro».
Un aspetto significativo di questo neo-impegno è l’idea che la letteratura, per essere buona, deve dare risposte complicate, ambigue, e deludere le attese piuttosto che adempierle; l’idea che la letteratura è “il territorio in cui nessuno possiede la verità, né Anna né Karenin, ma in cui tutti hanno diritto ad essere capiti, Karenin non meno di Anna”
Ora tutte queste cautele, tutte queste distinzioni fatte sul discrimine dell’età che a me paiono, appunto, frutto di un eccesso d’indulgenza nei confronti dei recensiti, e che giudico in buona parte insincere (la verità la dice Ugo in Bontà), colgono tuttavia un aspetto significativo di questo neo-impegno. L’idea che la letteratura, per essere buona, deve dare risposte complicate, ambigue, e deludere le attese piuttosto che adempierle; l’idea che, come scrive Kundera nell’Arte del romanzo, la letteratura è «il territorio in cui nessuno possiede la verità, né Anna né Karenin, ma in cui tutti hanno diritto ad essere capiti, Karenin non meno di Anna»; l’idea che i temi del dibattito corrente non sono quasi mai buoni temi per la letteratura; l’idea che ogni valore, persino la misericordia, è ancipite – tutte queste sono lezioni che si apprendono con gli anni, leggendo e riflettendo su ciò che si è letto. Ora però che l’autorità dei critici è evaporata, che le pagine culturali non hanno più alcuna forma né alcuna reale influenza, e che le voci più ascoltate non appartengono ai vecchi professori come Siti, accade che il discorso sulla letteratura si sviluppi e si comunichi soprattutto in Rete, per iniziativa di lettori giovani molto attivi e rumorosi, che in quanto lettori forti sono anche, come osserva Siti, «un prezioso target commerciale».
Ora che l’autorità dei critici è evaporata, che le pagine culturali non hanno più alcuna forma né alcuna reale influenza, e che le voci più ascoltate non appartengono ai vecchi professori, accade che il discorso sulla letteratura si sviluppi e si comunichi soprattutto in Rete, per iniziativa di lettori giovani molto attivi e rumorosi
In questo nuovo ambiente, che fino a ieri non esisteva, può accadere che il libro più venduto in Italia per settimane sia il romanzo Per tutto il resto dei miei sbagli di Camilla Boniardi, «Camihawke su Instagram, 1,2 milioni di follower, 31 anni, content creator, [che] ha saputo trattare temi che le sono vicini e che condivide con un’intera generazione in un racconto che è ispirato alla sua vita ma non puramente autobiografico» (Enrica Brocardo, Come ha fatto Camilla Boniardi a scalare la classifica dei libri più venduti, Wired.it): romanzo che non ho letto, ma che verosimilmente non corrisponde all’idea di letteratura matura e problematica che Siti difende. Provvederà la scuola a correggere, a riorientare? Può darsi, ma a me pare che anche a scuola, forse soprattutto a scuola, la pressione dell’ambiente culturale mediatizzato tolga sempre più campo alle difficili virtù predicate da Siti (complessità, mediazione, ambiguità) e tenda sempre più spesso a dissolvere la letteratura in quella pedagogia morale che Siti, a ragione, trova così respingente. Parlando dei romanzi di Jane Austen, Fran Lebowitz ha protestato una volta contro questo genere di moralismo: «Oggi alla gente si dice di continuo: “Cosa puoi imparare sulla tua vita da questo romanzo? Quale lezione c’insegna?” Questa è roba da filistei, roba che va oltre la volgarità, è un modo orribile di accostarsi a qualsiasi cosa». È un modo orribile, ma è il modo ovvio, automatico, per chi nella letteratura cerca il conforto dell’edificazione. Con questo non voglio anch’io intonare il lamento sul declino della letteratura seria: credo che la letteratura seria – che fa capolino ogni tanto nel libro di Siti: Houellebecq, Carrère, Leavitt, Ellis, con loro sarebbe stato bello poter leggere un dialogo più esteso – continuerà tranquillamente ad esistere, e a illuminare l’esistenza di moltissimi individui; ma credo che nella sfera pubblica faremo sempre più fatica a percepire la sua voce: voci più potenti la sovrastano.
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