«È il tipico romanzo che diverte chi lo scrive e annoia chi lo legge, come le fotografie fatte in vacanza e proiettate per gli amici in lugubri serate»; «Una storia patetica e dolciastra, sincera fino alla falsità, la letteratura come certificato di purezza»; «Il solito io in sfacelo, postsperimentale, dilagante, tra ubriaco e paranoide. Velleitario, modesto»; «Un idillio, eccitante come potrebbe essere una coca-cola annacquata»; «Un testo livido, tetro, opaco, in cui le continue frustrazioni del protagonista diventano subito del lettore»: questi non sono che una piccola parte degli aforismi critici radunati per le cure di Daniela Marcheschi nella raccolta dei pareri di lettura («Un libro che divorerei». Pareri di lettura) di Giuseppe Pontiggia, ma tanto basta a far venire voglia di leggere il resto del libro, pubblicato dal neonato editore veneziano Palingenia.
Mi pare che oggi le conversazioni più interessanti sulla letteratura abbiano luogo non più sui giornali (da tempo) e nemmeno sulle piattaforme social (ormai da un po’), ma in consessi privati o semiprivati: davanti a un caffè o a una birra, facendo quattro passi o aspettando un tram, via mail o attraverso messaggi vocali. Forse è sempre stato così, forse, dopo una breve fase di euforia, molti lettori intelligenti hanno capito che l’Internet odierno è la caricatura distopica di una piazza dei saperi e ormai mantengono i social per questioni strettamente lavorative, di pubbliche relazioni superficiali o di svago disimpegnato, preservando i propri pensieri più onesti per quando si spengono i riflettori della vita online.
Per un curioso parallelismo, che risponde a questa insofferenza nei confronti del discorso culturale più visibile, di recente la nicchia dei lettori colti ha dedicato molta attenzione ad alcuni libri di pareri di lettura editoriali di scrittori-critici: penso a quelli di Giorgio Manganelli (Estrosità rigorose di un consulente editoriale), pubblicati qualche anno fa da Adelphi per le cure di Salvatore Silvano Nigro, o, più di recente, a quelli di Franco Fortini (Pareri editoriali per Einaudi) pubblicati da Quodlibet per le cure di Riccardo Deiana e Federico Masci. Il genere della raccolta di pareri soddisfa alcune esigenze, non tutte commendevoli, del lettore iper-scolarizzato: il feticismo erudito da degustatore di ripescaggi, il senso di nostalgia per stagioni letterarie che ci sembrano migliori di quella presente, il nutrimento di quel professorino interiore che tutti abbiamo dentro – che approfitta dell’intelligenza di lettori eccezionali per confortare il proprio gusto e fustigare la banalità di quello altrui – e, infine, la risposta al desiderio, questo sì legittimo, di sentire parlare di libri in modo più libero, realistico e intellettualmente spregiudicato di quanto non si faccia in genere. Nei casi più fortunati, in libri così i lettori possono trovare quello che molta della critica contemporanea non sa più offrire.
I lettori di Giuseppe Pontiggia hanno in mente il suo volto bonario e rassicurante e, per ciò che riguarda la sua notevole attività di saggista letterario, il tono da conversatore assennato e affabile, sempre misurato, ideale fratello di quell’altro lettore professionista che è stato Italo Calvino, anche se meno interessato di quest’ultimo alle indicazioni provenienti dai laboratori accademici di mezzo mondo. Quel che emerge dalla lettura di questi pareri, che l’autore stilò per Adelphi e Mondadori negli ultimi decenni del secolo scorso, complica questo ritratto rassicurante, reso più sfaccettato dallo humour e della sprezzatura che pure appartengono all’autore di La morte in banca, Vite di uomini non illustri e Nati due volte. In fondo, il parere di lettura è un testo operativo, pensato per una circolazione interna alla casa editrice, che risponde a esigenze in vario senso economiche: richiede velocità di esecuzione e schiettezza lapidaria. L’occhio di chi legge, anche quando appartiene a uno sguardo in genere moderato e sensibile (verrebbe da dire buono) come quello di Pontiggia, è teso in primo luogo a verificare le reali potenzialità di inserimento dei manoscritti nella linea editoriale della casa per cui si lavora: non a stabilire quale libro sia in astratto il più bello, dunque, o quello che soddisferà i capricci dei critici, ma il più adatto a incontrare i suoi lettori. Da qui una perdonabile sbrigatività da telegramma in certi giudizi, che risultano più taglienti di quanto sarebbero se Pontiggia li avesse adattati a recensioni vere e proprie, anche se il registro dell’ironia perfida non è estraneo all’autore di un libro come Le sabbie immobili.
I riassunti di Pontiggia, da studiare per chi si cimenta con recensioni e saggi letterari, sono già una forma di critica, perché in poche righe riescono a dare la giusta dimensione al libro
Nella forma chiusa del parere, Pontiggia vede esaltato il suo atticismo e le sue capacità di sintesi, che producono di continuo callidae iuncturae ed espressioni di stupefacente esattezza diagnostica, come quelle che ho riportato in apertura di questo pezzo. È sorprendente constatare l’estrema competenza e la sicurezza di mano dell’autore non solo nel valutare la narrativa, come ci si aspetterebbe, ma anche la poesia e la saggistica di diverse tradizioni nazionali. I riassunti di Pontiggia, da studiare per chi si cimenta con recensioni e saggi letterari, sono già una forma di critica, perché in poche righe riescono a dare la giusta dimensione al libro in oggetto e a metterlo in una corretta prospettiva, incorporando accenni valutativi già in fase di presentazione e descrizione.
Anche per l’esemplarità del testo in questione, si veda l’inizio di un parere del 1976 su alcuni saggi di Harold Bloom, fra i quali anche un testo spinoso e molto discusso come The Anxiety of Influence,pubblicato tre anni prima e inquadrato da Pontiggia in tre righe di grande nitore: «È un tentativo, abbastanza suggestivo e coraggioso, di fondare sull’area del profondo (numi tutelari Nietzsche e Freud) una teoria generale della poesia, il cui processo creativo sarebbe condizionato da meccanismi psichici di difesa e di sopraffazione, di volontà di potenza e di angoscia, di incomprensione e disprezzo». Libero da pregiudizi accademici, l’impiegato indipendente Pontiggia, se così possiamo chiamarlo, spesso ridimensiona libri ambiguamente canonizzati (si veda il parere su Real Presences di George Steiner) e mode letterarie che ancora oggi appesantiscono gli scaffali delle librerie. Senza mitizzare un’inesistente età dell’oro, quello che in ambito letterario trenta o quarant’anni fa poteva sembrare semplice common sense oggi è sempre meno common, dato che viviamo un’epoca in cui gli autori non hanno più lettori, ma una fandom che non sa o non vuole distinguere fra libri più e meno riusciti, fra prove più impegnative e libri scritti con la mano sinistra, fatti per riempire un silenzio editoriale visto sempre più come sospetta improduttività.
Si legga in questo senso l’attacco del parere su un’opera minore di Sebastiano Vassalli (Il millennio che muore, Einaudi, 1972), che per gli standard di oggi sarebbe almeno in finale a qualche premio e prima nelle classifiche di qualità della bolla letteraria, simili in modo inquietante a quei concorsi dove si usava eleggere la più bella o il più bello della scuola, spesso elemosinando i voti classe per classe: «Purtroppo il libro paga una pesante imposta alla critica, consigliera funesta. Scrivere avendo in mente Blanchot, Poulet e Manganelli letto nelle più deliranti recensioni alla Citati che direttamente sul suo testo vuol dire imboccare la strada proprio sbagliata, come cominciare una cena dal dolce». Si capisce che con questo metro oggi bisognerebbe chiudere non solo qualche collana, ma interi editori: visto che ciò non è possibile e nemmeno auspicabile, potremmo accontentarci di assimilare qualche anticorpo contro i titanismi da fascetta editoriale e i canoni costruiti via retweet. Leggendo libri come questo, infatti, ci si ricorda di una lezione salutare, cioè che molti libri che sembravano importanti trenta, quaranta o cinquanta anni fa, oggi sono completamente dimenticati, e non sempre a torto.
Si finisce la lettura con il sospetto che nell’editoria di fine secolo Pontiggia sia stato una figura molto più influente di quello che normalmente si è disposti a riconoscere, anche per mancanza di contesto e di scavi critici adeguati
Nascoste in pareri più misurati e chiaroscurali, nel libro si trovano intuizioni in grado di illuminare un’intera stagione letteraria o addirittura di prevederla, come nel caso del bellissimo parere del 1982 su Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, libro apprezzato da Pontiggia, anche se con qualche riserva:
I punti di forza del testo (immediatezza, intensità del parlato) finiscono però, se rapportati alla scala di un romanzo, per risultare anche di debolezza. La violenza della scrittura rinvia a esempi anche di rilievo (da Genet a Miller a Kerouac), ma c’è un controllo ancora insufficiente della struttura romanzesca e si resta come un po’ soffocati da una psicologia ossessiva, troppo centrata su di sé e sui propri problemi per mettere alla giusta distanza narrativa personaggi e scene. Ci sono troppi narcisismi, sia pure di segno negativo, troppo autobiografismo, non dico letterale, ma nel senso di una adesione troppo diretta alle esperienze raccontate, senza quel distacco (voluto o spontaneo) che consente di elaborarle e trasformarle fino a ottenere il massimo di significatività.
Sono parole che potrebbero essere utilizzate come quarta di copertina collettiva per buona parte della cosiddetta autofiction italiana, che spesso presenta gli stessi difetti, solo molto più accentuati o privi dei contrappesi delle tante bravure di Busi, che Pontiggia rileva comunque in quello che sarebbe stato considerato con buone ragioni uno dei libri migliori di uno dei migliori narratori di quella stagione.
Si finisce la lettura con il sospetto che nell’editoria di fine secolo Pontiggia sia stato una figura molto più influente di quello che normalmente si è disposti a riconoscere, anche per mancanza di contesto e di scavi critici adeguati. Per un paradosso tutto italiano, il fatto che l’autore abbia lavorato “nascosto in piena luce” presso due dei nostri editori culturalmente più influenti ha indotto a trascurarne il contributo. Anche per questo si rimpiange la curatela un po’ leggera del volume, che chiarisce solo in parte l’impatto di questo apporto e che propone solo uno dei percorsi possibili nella vasta produzione editoriale lasciataci da Pontiggia, oggi consultabile presso la Fondazione Beic di Milano. La capacità di Pontiggia di operare distinzioni, di pesare correttamente gli autori, di evidenziare con grande reattività l’inflazione delle ideologie linguistiche correnti e dei trend editoriali più in voga rende questo libro una miniera dove recuperare strumenti per non lasciarsi abbindolare da quella che l’autore ha definito, con l’ennesima formula efficace, l’autorità immaginaria che gli autori continuano a intestarsi, oggi più di ieri, col conforto delle proprie cerchie.
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