Sarebbe buona prassi astenersi dal recensire i libri dei colleghi. Un po’ perché vige la legge per cui dei compagni di professione nihil nisi bonum, e dunque gli apprezzamenti finiscono con l’apparire sempre insinceri – un esercizio d’ipocrisia che esige che poi il favore venga ricambiato a tempo debito –, e un po’ perché, al contrario, i rari casi in cui ci si azzarda nella critica del proprio compagno di scrivania o di redazione sembrano sempre sottintendere un regolamento di conti, la ripicca per un qualche sgarbo di anni prima, l’averti rubato uno scoop, una fonte, il pacchetto di caramelle alla menta. Ma parlare del libro di Luciano Capone e Carlo Stagnaro Superbonus. Come fallisce una nazione (Rubbettino, 2024) è forse in qualche modo utile perché attraverso l’elogio del loro lavoro si possono illuminare un poco i limiti di un’intera categoria – o, diciamo meglio, di buona parte di quella categoria, quorum ego – e delle abitudini con cui, in particolare, questa affronta i temi che stanno a cavallo tra la politica economica e la politica politicante. Tutto un complesso di consolidata pigrizia, sciatteria, sostanziale adesione alla narrazione del governo di turno (o, che è lo stesso, preconcetta contestazione di quella narrazione) che nel confronto con la puntigliosa acribia di Capone e Stagnaro, due giornalisti non politici che però forse proprio per questo colgono spesso gli aspetti più rivelatori della politica, stride e risalta.
Nel caso del Superbonus, poi, questo attrito è notevole, specie ora che un po’ tutti – tranne gli irriducibili, o gli irrecuperabili – riconoscono la perniciosità di quella misura. Solo che Capone e Stagnaro hanno iniziato a dirlo quando era blasfemo anche solo sollevare dubbi. Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà, no? E i primi articoli di Capone e Stagnaro che evidenziavano gli aspetti più illogici e pericolosi del Superbonus sono della metà di maggio del 2020, due note discordi in una fanfara di tripudio per «la più grande misura di politica economica ed ecologica della storia repubblicana» (cit. Giuseppe Conte). Basterebbe rileggere quei pezzi pubblicati sul «Foglio» (Piano con l’Ecobonus, del 10 maggio; Buone ragioni per diffidare dell’ecobonus, del 15 maggio) per trovarci, già ben lumeggiate, tutte le distorsioni di una misura scellerata e dell’ideologia che ne stava alla base: l’illusione di poter aggirare i vincoli di realtà sulla finanza pubblica, la retorica sul green come pretesto per scialacquare risorse e ricercare consenso facile. Ecco, Capone e Stagnaro, benché l’immagine possa apparire quella che è, con le tette al vento ci giravano già qualche anno fa, ci hanno girato per primi.
Capone e Stagnaro, che pure hanno formazione e approcci diversi, studiano la politica senza frequentarla quotidianamente come fanno i cronisti parlamentari
Ma più che elogiare questa loro precocità di giudizio è interessante provare a indagarla: comprendere, insomma, cosa li ha portati ad avere l’intuizione giusta quasi di primo acchito. Anzitutto, come accennato, c’è il loro metodo. Capone e Stagnaro, che pure hanno formazione e approcci diversi, studiano la politica senza frequentarla quotidianamente come fanno i cronisti parlamentari: bazzicano poco o nulla il Transatlantico, non li si vede mai piantonare l’ingresso di Palazzo Chigi o la casa vacanze dove Giorgia Meloni va a stravaccarsi a Ferragosto. Il che forse li priva dell’ebrezza della prossimità al ministro o al sottosegretario, ma proprio per questo li spinge a battere altre strade, magari più lunghe e tribolate, ma anche meno infestate di mitomani, dissimulatori più o meno onesti e cialtroni patentati rispetto a quelle battute dai cacciatori del virgolettato di giornata.
Questo fa sì che le loro ricerche siano di solito immuni dai condizionamenti che la confidenza esasperata con le fonti inevitabilmente comporta: il tutelare quel ministro pataccaro perché sennò non ci racconta più chi litiga con chi nelle riunioni ristrette, l’assecondare gli spin di quel portavoce che ogni tanto poi in cambio ci sgancia un osso da rosicchiare e su cui fare un titolo. Ma soprattutto, li costringe a leggere le carte, a studiare molto più che a chiacchierare, a confrontarsi coi competenti (funzionari, burocrati, accademici) più che coi potenti – figure che tragicamente coincidono assai di rado, nella politica italiana.
Ma non è certo solo una questione di metodo. Se Capone e Stagnaro sono arrivati con tanto anticipo e tanta risolutezza alle conclusioni che ora più o meno tutti condividono, e cioè che il Superbonus è stato il più grave e improduttivo sconquasso delle finanze pubbliche della storia avvenuto tramite disposizione governativa, è in parte anche per un loro apparente vizio, e cioè per il loro consolidato pregiudizio. Il pregiudizio, cioè, che li spinge a diffidare in maniera quasi aprioristica di qualsiasi intervento dello Stato nell’economia, specie se a questo intervento si pretende di demandare una missione salvifica. Quando sentono parlare di politica industriale, i due mettono mano alla pistola. Il che appunto parrebbe una pecca disdicevole che toglie lucidità al loro giudizio: e infatti un poco sembrano improvvide le citazioni di Milton Friedman riportate, come quella a pagina 37, per corroborare le critiche alle insensatezze economiche del Movimento 5 Stelle.
Se non fosse che in Italia, a ben vedere, quando i governi decidono di mettere dei miliardi per indirizzare questo o quel settore produttivo, per innescare una qualche ripresa, il famigerato volàno, finiscono in effetti per combinare quasi sempre dei disastri. Questo spiega in parte perché, his fretus – sui bei fondamenti che a Capone e Stagnaro derivano non solo dalle fanfaronate dei vari Mimmo Arcuri dei tempi nostri, ma forse anche dalla conoscenza profonda di un certo modo italiano di fare le cose, un modo che, sempre per stare a Manzoni, risale su fino ad Antonio Ferrer – abbiano dubitato subito del Superbonus, cioè di una misura con cui lo Stato, pagando i privati per convincerli a rifarsi la casa, voleva risollevare le sorti dell’economia e al contempo, perché no, favorire anche la transizione ecologica.
Ma va anche detto, a onore dell’onestà intellettuale degli autori, che il loro pregiudizio non è del tutto tetragono fino al punto d’essere ottuso: e non a caso il libro riconosce, proprio mettendoli a contrasto coi difetti del Superbonus, i meriti di un’altra imponente politica industriale, e cioè il Piano Fanfani, i cui benefici sociali furono in fondo tali da giustificare, eccome, l’esborso comunque consistente per l’erario. E forse, in questa scarnissima rassegna di interventi statali virtuosi, avrebbe potuto essere citata anche la Cassa del Mezzogiorno, ovviamente solo per la sua iniziale fase di attuazione, tra il 1950 e la metà dei Sessanta, prima che le degenerazioni clientelari la trasformassero nello scempio che diventò poi.
Constatare, inoltre, come la critica severissima all’interventismo pubblico in economia che Capone e Stagnaro fanno a premessa della demolizione del Superbonus poggi su un pregiudizio che, se pure è tale, è comunque in larga parte sostenuto da una consapevolezza matura di come vanno le cose (più che da un capriccio ideologico) induce a pensare che il vero paradosso politico del Superbonus sia che a promuoverlo e santificarlo sia stata anzitutto la sinistra, intesa tanto come partiti di governo (il M5S, il Pd), quanto, in larghissima misura, come quel gruppo nutrito di pensatori, giornalisti e burocrati che s’iscrivono al fronte progressista.
È vedendolo da sinistra che il Superbonus dovrebbe apparire un abominio: aver speso oltre 160 miliardi, privando di quelle risorse l’istruzione, la ricerca e la sanità pubblica, per consentire ai proprietari di rifarsi la prima e la seconda casa
Perché in fondo è proprio vedendolo da sinistra che il Superbonus dovrebbe apparire un abominio: aver speso oltre 160 miliardi (più di 220, se ci si mettono tutti i bonus edilizi fratelli del 110%), privando di quelle risorse il finanziamento di politiche per l’istruzione e la ricerca e la sanità pubblica, per consentire ai proprietari di prime e seconde case, perlopiù facoltosi e benestanti, di rifarsi la casa con le tasse dei contribuenti, è una cosa che dovrebbe far scendere in piazza coi forconi al suono dell’Internazionale. Di quei 160 miliardi, meno di 3,5 sono stati spesi per ristrutturare le case popolari. E tanto basterebbe a dire dello scandalo.
Mentre magnificava il Superbonus con la retorica falsa e bugiarda per cui avrebbe consentito l’accesso al credito agli incapienti, il centrosinistra al governo consentiva a proprietari di ville e villette, oltreché a una manciata di nobili titolari di castelli (è tutto vero!), di rifarsi la casa, mentre solo il 2% di quei soldi finiva ai veri bisognosi. Del resto, il ministro dell’Economia di Mario Draghi, Daniele Franco, confidava di pregare che non si sapesse in giro che mentre lui tagliava qua e là per far quadrare i conti, la sua palazzina signorile nel quartiere Trieste a Roma usufruiva del Superbonus, cioè dei soldi di coloro ai quali lui, come si dice in gergo, chiedeva sacrifici: ma quando questa obiezione la fece in Consiglio dei ministri, furono i ministri del Pd e del M5S a inveirgli contro.
E, in questo senso, la lettura ragionata del libro di due inveterati liberisti suggerisce proprio la necessità di ritornare alla critica delle armi per chi pretende di stare a sinistra con un poco di intelligenza. Perché, ad esempio, si potrebbe dire, proprio prendendo spunto dal capitolo 6 del libro di Capone e Stagnaro, che sul Superbonus la democrazia italiana si è mostrata davvero per quello che Marx diceva che lo Stato fosse, e cioè «il comitato d’affari della borghesia». Infatti non solo i costruttori dell’Ance e di Confedilizia, ma anche Confindustria, anche l’associazione dei bancari, e poi tutti quegli accigliati censori liberali e moderati che hanno elogiato Monti e Draghi, e che all’epoca gridarono il loro «Fate presto» in opposizione all’irresponsabilità dei governi dissennati, hanno voluto, celebrato e difeso la più scellerata misura che sia mai stata approvata in Italia sul piano finanziario, perché un po’ tutti tengono famiglia, perché il capitalismo italiano predilige sempre i «pochi, maledetti e subito», perché alla fine il mattone tira sempre, e al debito pubblico ci penseranno i nostri figli.
E verrebbe da indignarsi allora contro i padroni del vapore, se non fosse che tra i più arcigni difensori del Superbonus c’era, e in parte c’è ancora, la Cgil. Ma non è solo l’irresponsabilità di Maurizio Landini, qui, a rivelarsi. È semmai l’illusione di una sinistra alternativa, diventata poi sinistra di governo, che dalla crisi del 2008 in poi ha pensato di poter risolvere i problemi del mondo solo per via monetaria. Il massimalismo come ricattatoria fuga dalla realtà, siamo sempre lì: ma qui con un viraggio al surreale. Non più l’impegno costante e faticoso per misure intelligenti e coraggiose su scuola e diritto al lavoro, ma giochi di prestigio finanziari, invocazioni alle banche centrali perché stampassero moneta a rotta di collo, fumisterie da apprendisti stregoni della macroeconomia.
Ed ecco allora, nel libro, preziosissimo il ritratto del grillino Riccardo Fraccaro, vero ideatore del Superbonus, seguace di una sedicente teoria economica (la Modern Monetary Theory) che è propagata da una setta di squinternati pazzoidi che venerano un supposto economista del Connecticut, il quale è riuscito a convincere migliaia di sprovveduti in giro per il mondo che dire che il denaro si può creare dal nulla e a volontà non sia un modo per rivelarsi come dei babbei, ma per mostrarsi come eretici, eterodossi che non si spiegano alla dittatura del mainstream. Il fatto che poi in Italia alcuni di questi iniziati siano finiti non a tenere banco in un qualche bar di provincia, ma a Palazzo Chigi, e che lo abbiano fatto convincendo che questo era il modo per essere davvero di sinistra, e dissestando il bilancio statale, ha a che vedere con le bizzarrie di questo Paese, evidentemente.
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