Arianna Fantin ha ventisei anni. Da quattro vive a Berlino, dove si è trasferita per studiare scenografia alla Weißensee Kunsthochschule, dopo avere frequentato l’Accademia di Belle arti a Torino e a Bologna e avere fatto un tirocinio alla Fondazione Pistoletto di Biella. Ha esposto sia in collettive, sia in personali. Ha vinto qualche premio e ha lavorato, e lavora, per il teatro. Periodicamente – di norma non appena escono report di ricerche sugli «italiani all’estero», sull' «emigrazione di giovani» e compagnia cantante – si torna a parlare del futuro che attende le giovani generazioni in un Paese malandato come il nostro. Con una bassa mobilità sociale, uno Stato sociale sempre più in difficoltà e un sistema formativo che fa acqua da tutte le parti. La vicenda di Arianna non ha nulla di straordinario, in sé e per sé. Se non il fatto di rappresentare il caso di una giovane donna italiana che è riuscita a trovare un percorso coerente e a seguirlo. Anche per questo ci è sembrato interessante incontrarla e porle qualche domanda, per avere almeno qualche flash utile per comprendere lo spirito con cui oggi, a vent’anni, una giovane italiana se ne va a studiare e a lavorare all’estero.
D: Dunque, Arianna, abbiamo letto con interesse le tante cose che hai fatto e in particolare ci ha incuriosito, dopo avere visitato la personale che hai fatto a Bologna alla fine dello scorso anno, la tecnica che utilizzi. A proposito del tuo lavoro, scrivi «nell’utilizzo di tela e filo ho ricercato però diverse modalità di esposizione e fruizione: essi sono diventati strumento per un atto performativo, “carta e inchiostro” per un libro, messaggi cuciti e piccoli set per un video in stop motion».
R: Questa frase, che riguarda gli ultimi lavori che ho fatto, a partire dal 2009, descrive un approdo. Da tanto tempo ero alla ricerca di uno stile, di una poetica che mi permettesse non per ogni situazione, ogni mostra, ogni tematica di dover pensare una cosa totalmente nuova e sconnessa anche dagli altri lavori. Cercavo una metodologia, una rete che mi permettesse di avere un metodo di lavoro e anche, se vuoi, un materiale, una poetica, una tematica di base su cui sviluppare variazioni. Fino al 2009 utilizzavo il testo come punto di partenza: a volte mi capitava quasi di lavorare a un’analisi logica dei testi per poi arrivare a un costume, a un colore. Diciamo che sì, il testo era prima il mio vocabolario, il mio punto di partenza. Dal 2009 in poi è diventato un punto di approdo, nel senso che ho cominciato a utilizzarlo come elemento compositivo del mio lavoro, così come fosse un colore, così come fosse uno schizzo, e ho cominciato a lavorare sulla forma e non solo sul significato, ma anche sull’aspetto estetico, sull’azione legata al testo, o su un testo legato a un’azione.
D.: Puoi spiegarci meglio?
R. Beh, il mio primo lavoro in questa direzione è stata una performance che ho fatto qui a Berlino la prima volta nel 2009: consisteva in una tela bianca, grezza, su cui avevo ricamato un testo a mano sulla tematica della lingua, dell’imparare una lingua nuova, ed era un po’ uno scherzo, un gioco che facevo con me stessa, ma che riguardava anche tutte le persone come me, nella fase di apprendimento di una lingua nuova.
R.: Faticoso… non a caso…
D.: Esattamente. Il titolo del lavoro era: «Ricordare - cucire, dimenticare - scucire», e la performance si basava sul fatto che io presentavo alla mostra una tela con un testo ricamato e durante l’inaugurazione scucivo questo testo fino a che la tela non rimaneva bianca, con i fili neri del testo una volta cucito che rimanevano appesi in ricordo di quello che ci stava scritto. Questa per me è diventata una modalità di lavoro: il testo è diventato un elemento legato alla mia azione, il cui significato aveva senso legato all’azione che io attuavo sul testo, perché il testo parlava di come registrare una lingua nuova nella propria memoria, e di come il fatto di registrarla richiedesse molto tempo e molto sforzo, quasi come quando distruggi un testo cucito ti sembra di avere perso tutto quello che hai imparato e improvvisamente ti trovi in una situazione dove non ti vengono le parole, ti sembra di non ricordar più niente.
In più, nel ricamare questo testo mi sono accorta del suo valore visivo. Quindi mi sono chiesta: che carattere usare, come ricamare, come sviluppare le lettere; se in corsivo, in maiuscolo, con quale calligrafia ecc… Sino a quando ho trovato una modalità di scrittura. Un maiuscolo molto geometrico, fatto di linee verticali e orizzontali, e ho cominciato cucendo prima tutte le linee verticali, e poi tutte quelle orizzontali. Questa modalità mi permetteva poi di scucirlo in una maniera che risultasse anche più piacevole allo spettatore e più facile nel movimento, creando così una sorta di coreografia. Questo è stato il punto di partenza da cui ho sviluppato tutti gli altri lavori fino alla mia mostra personale. Ma ha rappresentato anche un punto d’arrivo, perché erano anni che ero alla ricerca di una modalità e di una tematica su cui basare tutti i miei lavori, perlomeno per un periodo.
D.: Credi di avere trovato una dimensione espressiva che potrà accompagnarti ancora a lungo?
R.: Non dico che farò soltanto questo. Però devo riconoscere che essermi concentrata su un’unica direzione mi ha aiutata molto. Lo spettatore ti riconosce sotto uno stile, sotto una modalità, e questo aiuta anche a far sì che la gente si ricordi di te e che, casomai, ti chiami perché tu sei quella che fa quella determinata cosa. Adesso, ad esempio, sto lavorando a un libro che è sempre in questa direzione; però mentre prima i miei testi erano in italiano o in inglese – comunque in una lingua comprensibile – e il significato giocava un ruolo in relazione al fatto che il testo fosse cucito, e all’azione stessa di cucire parole, questa volta sto ricamando un libro in lingua araba, in arabo antico. E nessuno quindi comprenderà lo scritto.
D.: Però, quanto a forme, la scrittura araba è davvero splendida.
R.: Esattamente. Così ho tolto al testo il significato, esaltando il significato visivo ed estetico. In questo, appunto, l’arabo ha un valore enorme. Ma il testo cucito ha due facce. Una in cui riconosciamo, possiamo leggere e comprendere il significato. L’altra, la parte ricamata, dietro, che per me è fondamentale, sia come significato sia come messaggio: il fatto che abbia due facce è ciò che rende il testo cucito diverso da qualsiasi altro; da un lato si contiene il significato semantico, dall’altro invece il significato visivo.
D.: Nel tuo lavoro quotidiano sperimenti molto e hai delle sovrapposizioni di generi e di arti di nicchia. Il tuo tipo di sperimentazione – che tocca le arti visive, la musica e la danza contemporanea – coinvolge anche persone che hanno tradizionalmente attenzione e passione per le forme classiche delle arti, siano esse musica o arti visive?
R.: Io credo che il pubblico sia sempre più un pubblico misto. Un po’ di pari passo col fatto che, a proposito dei vari aspetti dell’arte – la musica, la pittura, la scultura, la danza, e tutto ciò che fa parte del mondo creativo –, in questi ultimi anni, o comunque negli anni della mia generazione, si è sempre più giunti a un punto in cui si influenzano a vicenda e sussistono contemporaneamente.
D.: Quindi non ci sono veri e propri scomparti.
R: Esatto, e credo che il pubblico in qualche modo segua anche questo aspetto, questo andamento delle cose, per cui ci sia sì un pubblico misto che segue eventi dove sono raccolti diversi tipi di arte, magari anche aspetti dell’arte sperimentale, nuova, non legati a espressioni classiche.
D.: Quindi un incrocio, sia da un punto di vista generazionale, sia rispetto…
R.: Alle varie discipline.
D.: Alle varie discipline tradizionali… però soprattutto a Berlino?
R.: Beh, uno degli aspetti che mi affascina di più di Berlino è il fatto che non ci siano delle distinzioni nette, né di età, né di genere, né di interesse. Tu entri in un locale, in un caffè, in una galleria, e che sia un posto chiccoso o super-alternativo ci trovi un pubblico completamente misto. In Italia è una cosa molto rara da incontrare, questa «non differenza». Qui le differenze, anche quando ci sono, vengono prese in maniera molto più leggera. In questo modo io ho avuto la possibilità di conoscere e fraternizzare con persone che hanno vent’anni o trent’anni più di me, con cui esco e faccio le stesse cose che faccio coi miei coetanei, senza nessuna sensazione di patire un gap generazionale.
Credo che sia uno degli aspetti più belli di Berlino, questo miscuglio di generi, di età e di interessi, che però poi si ritrovano tutti a osservare e poi magari a discutere dello stesso evento. Ad esempio, a uno spettacolo di danza contemporanea – dove io mi aspetto di vedere più ballerini e più donne – incontro invece un pubblico composto da tanti ragazzi giovani.
D.: Vorremmo farti una domanda specifica sull’importanza della fotografia, e della fotografia analogica in particolare. Abbiamo l’impressione che i ventenni-trentenni oggi stiano tornando all’analogico.
R.: È una bella domanda. Anche se non è il mio campo, penso abbiate ragione nel dire che la mia generazione è ancora legata alla fotografia analogica.
D.: Questo legame deriva dal fatto che è cool usare una vecchia macchina…
R.: Forse. Ma voglio prendere questa sollecitazione anche in senso un po’ metaforico. Da una parte – ma è un mio punto di vista, molto personale – credo che, conoscendo le basi della fotografia analogica, si riesca a gestire molto meglio anche la fotografia digitale. Sapere che cosa vuol dire scattare una fotografia con una macchina analogica, tenendo conto della luce, dei contrasti, dell’inquadratura, del processo di sviluppo della fotografia, e poi realizzare questo in digitale, ti dà una diversa coscienza del lavoro che intendi fare.
D.: Non è inutile e superfluo sapere come ci si è arrivati, insomma.
R.: Esattamente, partendo dall’inizio, come quando studi storia: per capire che cosa accade oggi bisogna sapere che cosa è successo prima. E questo è anche importante a un livello, diciamo, di sperimentazione pratica, quindi non solo leggere di come funziona, ma, cioè, provare anche il mezzo. Quello che però è il mio punto di vista, e in questo senso prendo la domanda in senso metaforico perché non riguarda solo la fotografia, ma riguarda un po’ tutto nella mia generazione.
D.: Tu sei del?
R.: Dell’ottantasei: la nostra generazione è nata in un momento di transizione, col mito della generazione precedente e con le possibilità della generazione successiva. Quindi, tra i miei coetanei, tra i miei amici, abbiamo quasi tutti, per esempio nella musica, il mito di band che sono veramente passate. Però spendiamo anche cento euro per andarci a vedere un concerto di Bob Dylan o altri miti che fanno parte della generazione dei nostri genitori.
D.: Ma anche nella musica non ci sono più quei confini rigidi di un tempo.
R.: Si, esatto, e quando chiunque ti chiede che musica ascolti, tu rispondi che ascolti di tutto. Chiedere che musica ascolti oggi non ha più molto senso. Così non ha molto senso chiedere che tipo di fotografie fai. Tornando alla fotografia, ad esempio, io ho cominciato da bambina. Mi è stata regalata una macchinetta analogica, ho cominciato a fare foto, ho cominciato così per caso. Poi a diciannove anni ho cominciato ad andare in camera oscura, a sviluppare, ed ero diventata matta, mi piaceva tantissimo, e sono rimasta legata a quella fotografia. Io non uso più la fotografia come espressione artistica, la uso solo per la documentazione, come mezzo. Però se dovessi usarla come espressione artistica tornerei alla fotografia analogica in bianco e nero.
D.: Ci sarebbero da dire ancora tante cose, ma siamo già stati molto lunghi. Ma una domanda conclusiva te la devo fare. Ed è molto molto banale.
R.: Pazienza.
D.: Come si sta a Berlino?
R.: Bene, come si sarà capito. Di tanto in tanto torno in Italia e non so dove sarò tra dieci anni. Però qui chi ha vent’anni può vivere senza pesare sui genitori, studiando, lavorando. Se hai bisogno di qualcosa per arrotondare un po’ e ti adatti, qualche ora la sera in una pizzeria riesci sempre a farla. Almeno per comprarsi il materiale per continuare a lavorare, dopo lo studio. Soprattutto non capita quasi mai di fare cose banali, o almeno a me pare.
R.: A volte però tocca rispondere alle domande banali che arrivano dall’Italia… Grazie, Arianna.
R.: Grazie a voi!
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