Adesso abbiamo fretta, perché Alfredo Cospito sta morendo. Sono però almeno due decenni che da scienziati sociali e da studiosi del carcere – oltre che da persone che hanno vissuto sulla propria pelle o visto su quella altrui le ripercussioni di sistemi detentivi che si richiamano alla massima sicurezza – riflettiamo criticamente e scriviamo contro il particolare accanimento dello Stato nei confronti di chi attenta all’ordinamento giuridico-istituzionale: il sistematico ripresentarsi, in situazioni considerate di emergenza, di dispositivi eccezionali rispetto alla giustizia ordinaria, il loro altrettanto sistematico eccedere le dichiarate emergenze e il loro ripetuto estendersi a situazioni e soggetti diversi da quelli inizialmente contemplati. Si tratta di una storia che si ripete nel tempo: dalla legislazione di emergenza degli anni Settanta, a quella pensata per le stragi di mafia degli anni Ottanta, fino alle disposizioni che pretendono di far fronte al cosiddetto terrorismo islamico, ci troviamo di fronte a quello che penalisti e sociologi hanno chiamato “diritto penale del nemico”: la previsione della possibilità della giustizia di dislocarsi in uno spazio altro rispetto ai confini che la definiscono, di negare se stessa e i propri principi, continuando comunque a definirsi giustizia.
A questa dislocazione è necessario fare riferimento per comprendere appieno il 41bis, la previsione normativa di un trattamento “fuori legge” per determinate figure considerate particolarmente pericolose, addirittura – con una significativa dislocazione finanche del linguaggio – “malvagie”, trasgressive non tanto di singole norme, quanto dell'intero ordinamento, non sanzionabili nello stesso modo del comune cittadino. Si tratta di una giustizia dai due pesi e dalle due misure, che vede il cittadino normale come meritevole di garanzie e tutele, destinatario, pur se colpevole e condannato, di risorse che la legge gli attribuisce e che la Costituzione vuole come rieducative e risocializzanti. Dall’altra parte c’è il “nemico”, che si è macchiato di comportamenti particolarmente riprovevoli, pericolosi e dannosi: a quest’ultimo il 41 bis riserva un trattamento conseguente, senza garanzie né tutele, finalizzato primariamente alla neutralizzazione dei rischi per la sicurezza pubblica che, attraverso un potenziale afflittivo ormai fuori controllo, rischia continuamente di tradursi nella neutralizzazione della persona. Le ricerche e le testimonianze di chi ci è passato raccontano di isolamento perpetuo, di perquisizioni profondamente invasive, di drastiche limitazioni nell’accesso alla luce e all’aria, di negazione di ogni rapporto familiare e umano; raccontano della tumulazione in vita, della negazione della vita stessa, della “pena di morte viva”.
Può la risposta penale assomigliare così tanto alla vendetta senza con questo tradire la propria legittimazione?
È in questa situazione che, dopo 10 anni di carcere e 10 mesi al 41 bis, Alfredo Cospito ha maturato la decisione di rinunciare ad alimentarsi, come denuncia estrema nei confronti del trattamento a cui è sottoposto, lui e altre 748 persone in 12 istituti penitenziari in Italia. Il suo caso ha toccato per la prima volta la sensibilità di un numero estremamente elevato di persone: anarchico con reati gravi alle spalle, senza morti né affiliazioni di mafia, Cospito, in ragione della sua situazione e del modo in cui ha deciso di farvi fronte, sta progressivamente minando un dispositivo finora sigillato. L’ambiguità e l’arbitrarietà con cui gli è stata estesa e applicata una legislazione pensata come strumento eccezionale di lotta a un fenomeno criminale particolare, toglie improvvisamente il velo alla giustificazione che, facendo affidamento sull’estrema peculiarità del fenomeno di mafia, ha finora messo tutti a tacere; saltando quel legame originario, finora dato per scontato, si apre anche la riflessione, sempre rimandata, sulla trasformazione delle organizzazioni criminali negli ultimi due decenni e sulla necessità di attualizzare e documentare le giustificazioni di quell’afflizione apparentemente ingiustificabile. Infine – ma chissà se i tempi ci consegneranno altro – la sua minaccia di morte (la sua) ha il pregio, se così si può dire, di travalicare il suo caso specifico, rendendo temporaneamente accessibile una tematica estremamente complessa.La minaccia di morte di Cospito ha il pregio, se così si può dire, di travalicare il suo caso specifico, rendendo temporaneamente accessibile una tematica estremamente complessa
Attraverso il suo corpo, ormai in rovina, Cospito traduce in un linguaggio comprensibile a tutti secoli di interrogativi filosofici: può un sistema di diritto coincidere con la violenza al punto da portare un uomo a preferire la morte? Può la risposta penale assomigliare così tanto alla vendetta senza con questo tradire la propria legittimazione? Non doveva il diritto penale della tanto decantata modernità proteggerci, oltre che dalla violenza del potere, anche dalla violenza della vittima? Non doveva impedirci, infine, di diventare noi stessi dei carnefici? Vogliamo davvero che in nostro nome si annichilisca un uomo; che si tolga a un uomo aria e luce, che gli si vietino libri e penne, che si impedisca a una madre di toccare le mani del figlio? Vogliamo davvero che in nostro nome si costruiscano tombe per viventi sotto il livello del mare? Se non succederà nulla Cospito morirà, ma continueremo a sentire questa urgenza. La speranza è che questi interrogativi, una volta sollevati, possano continuare a vivere di vita propria, che si faccia di tutto per sostenerli e alimentarli, a prescindere da chi sarà ad essere investito dal 41bis. Una lettera aperta promossa da un gruppo di ricercatrici e ricercatori in scienze sociali ha raccolto in pochi giorni più di 200 adesioni. Chiede di porre fine al diritto di guerra e di cambiare pagina tornando a ripensare la risposta penale in termini diversi, all’interno di una cultura istituzionale che non preveda dispositivi inumani e degradanti e non contempli fine pena mai.
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