Tim, uno dei più importanti big spender, ha assegnato, secondo notizie di stampa, il budget pubblicitario del 2017 alla società francese Havas, un colosso che si occupa delle attività connesse alla pianificazione pubblicitaria (come agenzia e centrale media). Havas è controllata da Vincent Bolloré, presidente del gruppo Vivendi, quest’ultimo anche azionista di maggioranza di Tim, per cui la scelta appare scontata. Se dovesse andare in porto la scalata di Vivendi a Mediaset, si arriverebbe a un livello di concentrazione mai toccato prima, con una presenza egemone in tutti i comparti della comunicazione, dalla Tv, generalista e pay, alle telecomunicazioni, all’audiovisivo e alla pubblicità. Non a caso l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni sembra propensa a porre il veto alla scalata per posizione dominante (il nuovo gruppo, determinato dall’intreccio fra Tv e telecomunicazioni, oltrepasserebbe i limiti dell’antitrust previsti dalla legge Gasparri: Vivendi sarebbe quindi obbligata a liberarsi della partecipazione in Tim).
È impossibile prevedere l’esito finale della scalata di Vivendi a Mediaset (definita ostile); l’attuale situazione di stallo che si è creata fa supporre che i due contendenti dovranno trovare un accordo. Un eventuale intervento del governo a sostegno di Mediaset (magari con l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti, la nuova piccola Iri), in difesa formalmente dell’italianità della Tv, non avrebbe alcuna logica. La televisione non è un comparto strategico tale da giustificare un intervento dello Stato, com’è invece il settore delle reti di trasmissione (trent’anni fa si perse l’occasione di creare una società pubblica per le reti, progetto ora impraticabile, e che è stato il motivo del ritardo nella diffusione della banda larga). L’intervento di sostegno risponderebbe quindi solo alla logica degli scambi di favori politici, ripetendo un fenomeno del recente passato che sarebbe bene chiudere definitivamente (va segnalato che un eventuale passaggio di proprietà di Mediaset, risolverebbe, per assurdo, il famoso «conflitto d’interessi»). Lo Stato dovrebbe comunque garantire che le acquisizioni degli investitori esteri, in tutti i comparti, non determinino una spoliazione degli asset fondamentali delle nostre aziende. La vicenda sollecita alcune considerazioni.
In alcuni Paesi europei s’impone l’obbligo alle radio di trasmettere una quota di canzoni in lingua nazionale (obbligo un po’ anacronistico nell’era del web). È diffuso in tutta Europa il sistema delle quote, cioè l’obbligo per le televisioni di trasmettere una quota di audiovisivo di produzione europea e di investire una parte dei ricavi nella produzione audiovisiva (obblighi che in Francia sono ancora più stringenti). Sono due esempi che evidenziano l’attenzione alla valorizzazione della propria cultura, alta o bassa che sia, favorendo in questo modo le imprese nazionali. Se Mediaset diventasse «francese», avremmo tre televisioni «straniere», Mediaset, Sky e Discovery, mentre le Tv nazionali rimarrebbero solo la Rai e La7. Un cambiamento che merita la giusta attenzione e che porta ad auspicare che Mediaset rimanga italiana: la Tv riflette l’immagine di un Paese, ed è utile a mantenere la sua identità!
Nel mercato non succede mai nulla per caso: se Mediaset è stata sottoposta a una scalata, impensabile fino a qualche anno fa, è segno di debolezza dell’azienda (la stessa scalata è stata favorita dal valore basso del titolo negli ultimi mesi del 2016). Mediaset Premium è in difficoltà nei confronti del diretto concorrente Sky (la Champions non ha dato i risultati sperati). Anche la programmazione presenta limiti innegabili: di là dagli aspetti qualitativi dei programmi, va rilevata la mancanza d’innovazione (il programma di punta rimane il «vecchio» Striscia la Notizia); mentre le fiction sono di solito sorpassate negli ascolti da quelle della Rai. Canale5 è stata inizialmente come una boutique di prestigio (nel 2000, con Il Grande Fratello, rivoluzionò la Tv), ora sembra quasi una sorta di discount. La scalata potrebbe darle una scossa positiva per ringiovanirsi, nel management e nella programmazione.
Un altro aspetto da considerare riguarda l’impatto di questa vicenda sulla Rai. Nell’ipotesi di Mediaset «francesizzata», la Rai rimarrebbe la sola grande Tv nazionale e ciò le imporrebbe di rappresentare al meglio la realtà del Paese. Le ipotesi di ridimensionare l’informazione regionale andrebbero riviste. Si dovrebbe inoltre prevedere una programmazione ideata e prodotta localmente, anche con il contributo dei privati (sul modello della Bbc). Insomma la Rai dovrebbe ritornare a fare «servizio pubblico», ruolo che sovente non è espresso al meglio e che anzi, per molti, non sa più interpretare.
La vicenda ricorda, infine, quanto sia urgente ridefinire i limiti dell’antitrust e promuovere l’autonomia dell’Autorità di controllo (Agcom). Quando i limiti sulla concentrazione sono troppo stringenti, si rischia di mantenere le imprese su dimensioni poco competitive a livello globale, mentre, ampliando le maglie, si facilita la formazione di oligopoli. Il problema fondamentale è individuare l’oggetto sul quale ancorare la concentrazione. La legge Gasparri la individua nel 20% del Sic (sistema integrato delle comunicazioni). Il Sic è, come noto, l’ammontare di risorse di un sistema troppo ampio e variegato, in alcuni casi poco attinente alla comunicazione (vi sono comprese, per esempio, anche le sponsorizzazioni, l’editoria annuaristica, la pubblicità esterna), al punto da rendere l’antitrust sostanzialmente inefficace. Sarebbe più corretto per la televisione ritornare, pur nell’ambiente digitale, al numero di reti che ciascun soggetto può detenere, distinguendo fra le reti generaliste e quelle tematiche, mentre si dovrebbero rendere più stringenti i vincoli nei casi di integrazioni dello stesso operatore fra più settori della comunicazione; nel caso della televisione si dovrebbe distinguere fra la Tv free e quella a pagamento (finora considerate un unico mezzo).
I problemi dell’Autorità di controllo meriterebbero una trattazione specifica. I membri dell’Autorità sono espressione dei partiti politici e ciò rende quest’organo quasi para-politico, depotenziandone così l’autorevolezza. C’è la possibilità che essa, svolgendo una sorta di arbitrato fra gli operatori più forti (i quali, fra l’altro, la finanziano), finisca per essere prigioniera degli interessi degli stessi operatori che dovrebbe regolare.
Ritornando, per concludere, alla vicenda Vivendi-Mediaset, bisogna augurarsi che possa risolversi in tempi brevi, per evitare che il dilungarsi dello stallo indebolisca l’azienda Mediaset, facendo sorgere il sospetto che si è di fronte non a una classica scalata (la Consob dovrà esprimersi al riguardo), ma a «un’operazione opaca» (Carlo Calenda).
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