L’8 settembre 2007, quando Beppe Grillo intimò all’unica bandiera sventolante in Piazza Maggiore di abbassarsi «perché portano sfiga», io c’ero e come gli altri risi. Ricordo che a fine giornata acquistai online il cofanetto di Incantesimi, lo spettacolo portato in tour da Grillo nel 2006; non feci nessun caso al logo di uno sconosciuto editore (una certa Casaleggio Associati), in compenso divorai il manuale per l’utilizzo del blog che veniva allegato al dvd (un libro che spiega come funziona un sito: che tenerezza!). Con un po’ di senno del poi e qualche anno in più sul groppone oggi sappiamo ammettere che miscelando il Vaffa dello stadio, il successo del film V per Vendetta (2005) e il ricordo della Resistenza (l’8 settembre non fu scelto a caso, ahinoi) il primo V-Day di Bologna inaugurò, sul piano estetico, emotivo e spettacolare – i livelli politici che oggi contano – la stagione di quel giacobinismo verbale e comunicativo che tanto male ha fatto al riformismo italiano, ma che al contempo ha condotto, in mancanza di altre forze qualitative, all’emarginazione mediatica di Silvio Berlusconi – che la sconfitta del Cavaliere non sia stata politico-culturale lo rende evidente l’attuale geografia parlamentare, dominata da antropologie (l’estrema destra di governo e gli onesti travagliosi) di diretta formazione berlusconiana.
A dodici anni dal V-Day di Bologna, il doloroso trapasso dalla seconda alla non-si-sa-quale Repubblica consegna alla neo Lega di Salvini la forza elettorale per ambire all’Emilia-Romagna. Temendo che gli attuali governanti possano perdere, quattro ragazzi bolognesi creano un evento Facebook e invitano la cittadinanza a confluire «sul crescentone» di Piazza Maggiore, armati di una sardina colorata autoprodotta: «Alle 20.30, quando gli "altri" entreranno nella bolla del Paladozza ad ammirare il loro nulla noi saliremo sul crescentone, ci stringeremo fino a soffocare finché non arriverà il segnale forte e chiaro: NOI SIAMO 6.000 E SIAMO VERI, e voi? Chi si unisce alla prima rivoluzione ittica della storia?». Nasce così, in meno di una settimana, il movimento delle #sardine: un format di presidio fisico attivabile in qualsiasi piazza, ancora una volta senza partiti coinvolti e senza bandiere a sventolare durante i raduni. Rottura o continuità? A me pare entrambe.
La piazza Maggiore del 14 novembre scorso porta alle estreme conseguenze la disintermediazione dell’«uno vale uno» grillino, ma è profondamente diversa da quella del 2007. La principale differenza sta nel fatto che il V-day fu tutt’altro che «spontaneo», si giovò di un volto famoso e di un’organizzazione professionale. Come emerge dalle testimonianze dei dipendenti della prima ora, gli esperti di Gianroberto Casaleggio cominciarono a lavorare con metodo alla produzione del consenso ancora prima di capire dove incanalarlo;
al contrario, la convocazione delle «sardine» Giulia, Andrea, Roberto e Mattia non ha dietro alcuna strategia aziendale, nasce su un obiettivo politico chiaro e contingente (le elezioni regionali in Emilia-Romagna) e si basa su una dinamica partecipativa già collaudata da qualsiasi tipologia di flash-mob lanciato da persone comuni sui social (non ce lo ricordiamo più, ma al tempo del primo V-Day Facebook in Italia quasi non esisteva, si sarebbe diffuso l’anno seguente). Non solo, ma se è vero che le Sardine nascono anti-Salvini, stando alle poche parole sinora pronunciate dai «ragazzi normali» la loro azione virtuale è alternativa innanzitutto alla cultura del Movimento 5 Stelle. Il loro manifesto-post, pacifico e tenace come il sano proposito di un gruppo scout, circola e vive nella «rete» che i grillini hanno beatificato, ma è estraneo alle ghigliottine e a tutto il repertorio di aggressività fascio-giacobina che in questi anni ha costituito il cuore e la forza del messaggio pentastellato. L’appello all’aiutare i politici anziché criticarli e basta, il rifiuto delle logiche binarie e anzi la volontà di fare dei distinguo, il riferimento all’«oceano di comunicazione vuota» in cui la politica è stata ingiustamente precipitata, il richiamo alla realtà dei fatti sembrano accuse scritte per la metà gialla del Parlamento. Non è un caso che il manifesto proclami che «la festa è finita per i populisti»: dunque non soltanto per la Lega di Salvini.
Tutto ciò ammesso, la continuità che rende queste novità possibili meriterebbe più attenzione anche da parte di chi (come me) si rallegra per la risposta «fai da te» di Davide allo strapotere della Bestia. A prescindere dalle intenzioni dei suoi interpreti, il fenomeno #Sardine è un sintomo della malattia che gli organizzatori di quelle stesse piazze denunciano, perché la loro convocazione civica, simultanea e disintermediata utilizza quella stessa viralità su cui viaggiano sciacallaggi, disinformazione e consenso plebiscitario, realtà sociali rese possibili dalla «neutralità» di un super-editore – nel caso specifico Facebook – di cui siamo tutti egualmente autori e clienti, da Matteo Salvini a Greta Thunberg. Le Sardine sono infinitamente più FB-dipendenti dei grillini dei primordi, solo non rivendicano la premessa tecnologica della loro influenza come identitaria, un po’ perché non gli interessa un po’ perché, essendo posteriori a chi si pretendeva post, trattano la spaventosa mobilità del consenso che i social network rendono possibile con la leggerezza che si riserva ai dati acquisiti. È questa spensieratezza perfettamente integrata nel sistema la brutta notizia per Matteo Salvini e il suo fido Luca Morisi, che già ora sembrano molto meno «geniali», ma anche l’ennesimo campanello d’allarme per la democrazia rappresentativa che parte di quei ragazzi sente di star difendendo contro il populismo.
La domanda, decisiva e ineludibile, che al di là del voto emiliano dovremmo porci, è se sia possibile un impegno pubblico che abbia ragionevoli probabilità di successo a prescindere dalla meccanica della viralità. Dopotutto, l’imbarbarimento del confronto politico e la rinuncia di buona parte delle giovani intelligenze del nostro paese all’impegno politico reale – fatto di voti, relazioni e scelte – sono entrambe conseguenze della velocità che il consenso digitale impone agli attori politici. Senza strutture di partito e dinanzi al rischio di bruciarsi presto e male nell’agone comunicativo, molti sobri competenti che le sardine eleggerebbero a furor di popolo scelgono di investire altrove le proprie pulsioni sociali. Il vuoto che lasciano è fisiologicamente riempito da chi ha molto meno da perdere e da dare – credo sia questo il caso di Salvini e Di Maio – o dall’episodico afflato di ragazzi applauditi per il buon senso, in un Paese dove «i giovani» (comunque trentenni in molti casi) contano zero e in cui il buon senso sembra perduto. E questo credo invece sia il caso delle sardine. Il rischio è che via social si riempiano sia le piazze che le urne, ma si svuoti la politica intesa come capacità di azione sulla realtà.
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