Le cose bisogna vederle in maniera laica, e questo è quasi impossibile in Italia. Le cose in Italia sono bianche o nere, guelfe o ghibelline, e nella scuola sono gentiliane o antigentiliane, conoscenze o competenze, e così via. La lotta tra posizioni molto marcate ha prodotto negli ultimi venticinque anni un vero e proprio pastiche di interventi ministeriali sul curricolo di storia e geografia: governi di centrodestra (più incisivi: riforme Moratti e Gelmini) e governi di centrosinistra (più labili: riforme Berlinguer e Fioroni) hanno imposto, in rapido avvicendamento, cambi anche violenti di paradigmi culturali e didattici, da una visione universalistica a una nazionalistica, dall’eurocentrismo al globalismo, andata e ritorno sulle teste di insegnanti e studenti. L’approdo attuale, ossia le Indicazioni Nazionali per la scuola secondaria superiore del 2010/11 (Gelmini) e per il primo ciclo del 2012 (Profumo), è un catalogo di saperi molto vasto; eppure noi abbiamo un problema enorme con le conoscenze di storia e geografia tra i nostri ragazzi. Non avendo test Invalsi o altre rilevazioni periodiche di sistema su queste due discipline (a riprova del fatto che non sono considerate fondanti, come vedremo dopo), ogni confronto tra docenti, genitori, studenti – ossia l’anima della scuola – resta impressionistico,pur nello sconforto condiviso quando si vede che l’ignoranza dello spaziotempo non resta solo all’interno delle mura scolastiche, ma affiora spesso nel parlare quotidiano di ragazzi ben grandi, che a sedici anni non sanno dove sia non dico Kaliningrad, ma nemmeno Bari, e quanto alla storia hanno (in tanti, troppi) un tale vuoto di immaginazione da poter convintamente sostenere che Giacomo Leopardi studiava tanto perché i genitori non lo facevano uscire la sera. Questo soprattutto tra i figli della working class e degli immigrati, mentre in una power family si è preparato da tempo il posto dorato del rampollo che tutto avrà studiato, in Italia e fuori, in italiano e in inglese.
Laicamente, dunque: in Italia viviamo una fase di denso classismo, di acuta divisione politica, e i sedicenti intellettuali si muovono per lo più con uno stile da mercanti, nuovi broker dell’editoria che devono, a botte di like sui social media, piantare bandierine in penosi assalti da trincee spesso immaginarie, costruite ad arte per tenere viva la scaramuccia, la contesa, la lite pseudoculturale. Tutto nel giro di ventiquattro ore, tutto istantaneo, ed effimero. Una provocazione intellettuale, anche seria proprio in quanto provocatoria, non si può vedere laicamente e approfondire, ma va messa in un campo, quello mio o quello del mio nemico. È il caso del volumetto Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, di Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, uscito lo scorso anno per la casa editrice Morcelliana. Il titolo non ha bisogno di spiegazioni: i due autori propongono che nella scuola dell’obbligo (più precisamente: nel primo ciclo) l’asse portante delle conoscenze sia rappresentato dal patrimonio storico e culturale nazionale. Per quanto riguarda l’insegnamento della storia, Galli della Loggia presenta un curricolo impostato secondo la cronologia lineare e centrato sulle vicende dell’Italia e dell’Europa, con una certa attenzione alle questioni politico-istituzionali e con un forte aggancio alla trattazione di contenuti di geografia. Questo approccio, che in molti dei suoi aspetti ha alle spalle una lunga tradizione, è alternativo a quello che viene definito (direi impropriamente) l’insegnamento “scientifico” della storia, all’interno del quale si prevede una trattazione delle vicende storiche multifocale sul piano geografico e sintetico-comparativa sul piano culturale, al fine di formare all’epistemologia della disciplina e ai metodi della ricerca. Le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo hanno avallato in buona parte questa prospettiva, e si è tentato di imporla anche per mezzo di un’ampia sperimentazione di metodi didattici laboratoriali, focalizzati spesso su case studies che sostituiscono o affiancano il percorso cronologico lineare, rimasto peraltro intatto nella manualistica. Non essendo però stato accompagnato da altri correttivi a livello degli ordinamenti, della formazione e del reclutamento degli insegnanti, questo vaste programme appare oggi come una grande incompiuta, e tanta è la confusione sotto il cielo, anche per la natura fisiologicamente “vischiosa” della scuola, che trattiene molte prassi derivate da fasi precedenti.
Nel momento presente la questione dell’identità sembra emergere non solo come pilastro ideologico di una parte politica e dei suoi radicalismi, ma come bisogno diffuso di rinnovata coesione sociale
Non si può negare che il richiamo all’identità italiana formulato da Galli della Loggia e Perla sia in questo momento armonico con la visione politica dominante, quella della destra di governo. L’identitarismo come strumento di contrapposizione nella lotta politica, tanto più quando si avvicina al suprematismo (il “primato degli italiani”), è da combattere senza appello. Eppure, nel momento presente la questione dell’identità sembra emergere non solo come pilastro ideologico di una parte politica e dei suoi radicalismi, ma come bisogno diffuso di rinnovata coesione sociale: ne parla per esempio il libro di Vittorio Emanuele Parsi, Madre patria (Bompiani, 2022). Le visioni universalistiche, che negli anni Novanta erano apparse coerenti con un orizzonte di auspicata pace mondiale, di sicurezza e facilità degli spostamenti di uomini e merci, di “fine della storia” insomma, possono dirsi superate dal clima di crescente insicurezza dei confini, anche nel cuore dell’Europa. Sul piano della visione educativa, tanto più nel fallimento di ogni politica di integrazione degli stranieri, ci si interroga su modelli diversi da un astratto universalismo: l’idea dell’identità nazionale diventa così un’opzione tutt’altro che inammissibile o inaccettabile, purché concepita nella cornice costituzionale. La Costituzione italiana non esprime un laicismo dello Stato alla francese, ma declina le libertà che attengono alla sfera dell’identità (razza, sesso, religione) in termini di pluralismo. Questo fondamento deve forse essere portato con più forza alla luce e alla coscienza di chi vive in Italia, essendo il principio per cui la comunità dei cittadini si dichiara accogliente pur restando sé stessa.
Posto questo principio, ci sono buone ragioni per cui oggi sarebbe preferibile fissare, nel primo ciclo, un insieme circoscritto di conoscenze storico-geografiche da far acquisire ai nostri alunni, ridimensionando il corpus enciclopedico delle Indicazioni Nazionali, pletoriche e formulate in un linguaggio astratto che è colato senza troppi adattamenti nei libri di testo e nel linguaggio degli insegnanti. Per questo ridimensionamento Galli della Loggia propone come filtro ciò che è vicino, attingibile direttamente dall’esperienza, e che può essere sì la tradizione atavica, la “radice” identitaria; ma può essere anche semplicemente quello che è, ossia una prospettiva dinamica e tollerante anche se italiana. Un ancoraggio a ciò che è prossimo sarebbe vantaggioso anche per gli immigrati di seconda generazione senza cittadinanza, ai quali si eviterebbe uno spaesamento esistenziale; per tutti, una visione meno disarticolata del mondo, nella quale si compiono da un lato condivisione e avvicinamento a una cultura che è aperta anche se italiana, dall’altro l’inevitabile trasformazione di questa cultura nel contatto con le altre.
La disomogeneità, si badi bene, non è solo quella classica Nord/Sud, ma anche quella città/campagna, nella quale si riproduce plasticamente l’opposizione verticale tra élite borghese urbana (umanistico-tecnocratica) e strapaese delle aree interne (televisivo-cattocomunista o televisivo-leghista)
Ci sono poi altre questioni. Attualmente si rivela difficile, per i bambini tra gli 8 e i 10 anni, impadronirsi dei contenuti di storia e geografia insegnati a scuola, che restano troppo astratti per il lungo soggiorno nella preistoria e negli antichi imperi d’Oriente; questo tanto più in presenza di ostacoli linguistici e background disagiati, con l’effetto di favorire le disuguaglianze a causa di una formazione annacquata e pertanto subordinata a quella delle power families. Per chi vive in Italia a vario titolo, la recente storia unitaria è un insieme di conoscenze inaggirabili; e questa storia va ripresa nel paesaggio, che è disomogeneo e che esprime i risultati di una coesione imperfetta. La disomogeneità, si badi bene, non è solo quella classica Nord/Sud, ma anche quella città/campagna, nella quale si riproduce plasticamente l’opposizione verticale tra élite borghese urbana (umanistico-tecnocratica) e strapaese delle aree interne (televisivo-cattocomunista o televisivo-leghista). I curricoli proposti da Galli della Loggia non vanno dunque liquidati frettolosamente, perché ribadiscono la necessità che storia e geografia siano insegnate insieme, a lungo, con un congruo monte ore, a riconoscere a questo asse disciplinare ben altra dignità di quella che gli spetta attualmente. Il modello francese potrebbe fornire ispirazione: in Italia, infatti, sopravvive, inattaccabile, l’abbinamento e l’affidamento di questo nucleo disciplinare a insegnanti “umanisti” (laureati in letteratura o filosofia), derivato da quella impostazione ideale e tradizionale della scuola secondaria in cui la storia va insieme alla filosofia, e la filosofia è superiore alla storia. Ma i tempi sono maturi per abolire il virile omaggio (virile, sì: perché, nell’immaginario comune, la geografia è roba da maestre) a questa specifica visione della cultura.
C’è infine un altro aspetto importante della proposta di Galli Della Loggia: la valorizzazione della natura narrativa del sapere storico attraverso il metodo didattico del racconto, che non implica la temuta (perché, poi?) verticalità della trasmissione del sapere, giacché a raccontare possono essere benissimo anche gli alunni. Il racconto, il buon racconto, è quello per cui peraltro vanno pazzi i milioni di fan di Alessandro Barbero; e se anche insegnare la storia ai bambini e ai ragazzi non può ridursi a momento-spettacolo, non bisogna neanche eccedere nella progettazione di attività didattiche astruse e dispersive, che possono rivelarsi più noiose di un buon racconto della Rivoluzione francese.
La fortuna del libretto (poco più di 100 pagine) sarà ora accresciuta dalla nomina di Loredana Perla a presidente della Commissione ministeriale che dovrà dedicarsi alla revisione delle Indicazioni Nazionali. Il dibattito tra gli appassionati dell’identità e i suoi detrattori è piuttosto aspro, e forse raggiunge anche chi non sa nemmeno che c’è (ed è bene che lo sappia). Ma ricalibrare le proprie posizioni, magari ritrovando, nell’idea di un’appartenenza comune, una traccia di fairness, è tutt’altro che una resa.
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