Alla fine sono arrivati i forconi. È troppo presto per capire se e quali sviluppi assumerà questa protesta; se sarà riassorbita; se tornerà ad emergere in forme nuove. Ma una cosa è chiara già da tempo: il disagio sociale che ne è all’origine è assai profondo, e non scomparirà. L’Italia viaggia in terre incognite: se la speranza è che prevalgano sempre ragionevolezza e moderazione, la preoccupazione che ciò non avvenga è forte. Basata sui fatti.
Siamo in una crisi non solo profonda come intensità, ma anche straordinaria come durata. Conta l’intensità. Ma conta molto anche la durata: anni di difficoltà incidono sui patrimoni delle famiglie, sul tenore di vita, sulle prospettive dei giovani. Se vi sono difficoltà economiche gli italiani possono rinviare l’acquisto di una lavatrice o di un’automobile nuova; ma se la crisi persiste e la lavatrice o l’auto si rompe, ci si trova nell’impossibilità di sostituirla, con un peggioramento netto della qualità della vita. La crisi, poi, non è uguale per tutti: sta creando maggiori disuguaglianze, nuove fratture sociali. Colpiscono i volti delle persone, anche anziane, scese per strada a Torino.
Purtroppo, mancano prospettive positive. Si festeggia la fine del crollo del Pil. Bene; non era ovvio. Ma si festeggia ben sapendo che tutte le previsioni per i prossimi anni sono di crescita modestissima, non in grado di riassorbire la disoccupazione e di restituire potere d’acquisto. Chi può, va: come i giovani più qualificati. Ma questo, se dà sollievo individuale, aggrava la situazione collettiva, ritarda il possibile recupero.
La politica e le istituzioni hanno una credibilità in gran parte compromessa. Riflettiamo un attimo: le durissime ricette di Monti non hanno provocato che modeste proteste: perché erano condotte da uomini abbastanza credibili, vissute come inevitabili, accettate come sacrificio oggi per stare meglio domani. Ma il domani non arriva mai. E monta lo sgomento; si rafforza chi, come Grillo, soffia irresponsabilmente sul fuoco: tanto peggio, tanto meglio. Non si dimentichi il crollo dell’affluenza elettorale, anche, recentemente, in regioni civili e tranquille come la Basilicata. Lo scalpo delle province o del finanziamento pubblico ai partiti, la prosopopea dei tagli alla spesa pubblica come magica soluzione fanno rumore, ma non risolvono nulla; non spostano di una virgola la situazione di fondo.
Ciò che è più grave, monta una voglia di protezionismo e isolazionismo, l’avversione per l’euro, l’Europa e la Germania. Perché sorprendersi? Come nota sconsolato il Premio Nobel Jo Stiglitz “l’euro doveva portare crescita, prosperità e un senso di unità in Europa; invece ha portato stagnazione, instabilità e divisioni”.
La protesta dei forconi non è una questione di ordine pubblico. È una spia che segnala che l’austerità fine a sé stessa è non solo sbagliata economicamente, ma insostenibile politicamente e socialmente: perché la capacità di sopportazione ha un limite; e se viene varcato si va in terre ancora più incognite, gravide di rischi inimmaginabili fino a poco tempo fa. Una spia che indica la strada maestra: per salvare l’Italia (e l’Europa) bisogna ridisegnare più ragionevolmente nel tempo le politiche dell’austerità. Prima che sia troppo tardi.
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