Da ultimo la vicenda dell’arresto dei Ligresti, ma poco prima gli scandali di Finmeccanisca e Saipem: tutte riconferme di diffusione nel Paese di forme degenerate di crony capitalism, di un inestricabile intreccio relazionale tra affari e politica. In questi casi, il successo economico non è determinato dalla competizione sul libero mercato e dalle opportune norme regolative, ma è dipendente da favoritismi e corruzione che viaggiano attraverso matrici anonime dei poteri, mediante multiposizionalità (interlocking) nei posti chiave dell’economia e della politica ecc.
Non è solo il nostro Paese a essere affetto da questo morbo degenerativo, che è stato rilanciato su larga scala durante la golden age della finanza globalizzata, caduta, dopo un trentennio di fasti, a causa dei disastri provocati dai giganteschi conflitti d’interesse che essa stessa aveva generato. Tuttavia, nel nostro Paese questo morbo sembra aver attecchito in misura maggiore, complici la forza invasiva del capitalismo politico e la debolezza di forme moderne e organizzate di private politics. Quando si tratta di debolezze non ci facciamo mancare niente: non solo deficit di governo, ma anche carente capacità privata di comporre i propri interessi (d’impresa, di consumatori, di lavoro). Da un canto il pan politicismo, la burocratizzazione e i vincoli asfissianti alla libera azione economica (l’elenco sarebbe lunghissimo) hanno lasciato correre nel Paese economie parassitarie, fondate sulla rendita, sulla speculazione pura e semplice, se non su tangenti e corruzione. In breve, una “gabbia d’acciaio” creata da una relazionalità deteriore, fatta di mazzette e nepotismi, e perciò avversa alla razionalità e all’innovazione economiche. Dall’altro canto, il nostro tessuto socioeconomico sfibrato e frammentato è apparso incapace di esprimere forme di private politics in grado di superare, con l’associazionismo e l’organizzazione (come sosteneva Robert Nozick), i tradizionali particolarismi egoistici e familistici, i corporativismi “di pancia” e i tediosi campanilismi, che fioriscono quando il capitalismo politico è forte, ma la stateness è debole.
Per combattere il morbo del crony capitalism nel nostro Paese l’antidoto non è solo esogeno: non è sufficiente confidare che tra le due sponde dell’Atlantico, prima o poi, si crei un quadro regolativo transnazionale affidabile e condiviso, capace di riequilibrare i nessi irrazionali e distorti tra economia finanziaria e economia reale, tra banche e operatori finanziari da un canto e imprese e lavoro dall’altro. Nell’attesa, le nostre imprese, il nostro lavoro, le nostre famiglie rischierebbero di finire sul lastrico. C’è invece una dura battaglia “domestica” da combattere per far prevalere il merito e non l’affarismo politicista, l’innovazione e non la privatizzazione speculativa dei profitti, la concorrenza e non il conflitto d’interesse. Questa battaglia va portata su sponda pubblica e su quella privata, con leggi, ma anche con nuovi comportamenti che ci liberino da protezionismi, favoritismi ecc. di cui hanno beneficiato quei gruppi ristretti che s’intrecciano nei CdA, tra mondo degli affari e politica.
Se in Italia esistessero forme moderne di private politics, le organizzazioni intermedie di rappresentanza avrebbero maggior capacità di governance condivisa degli interessi. Questa capacità, oltre rivelarsi d’aiuto alla governabilità e al governo, richiamerebbe la politica al proprio ruolo di guida. Purtroppo la crisi di rappresentanza colpisce la politica e non risparmia le organizzazioni intermedie, da tempo istituzionalizzate e indebolite come animatrici di private politics. Una debolezza statale che si sposa a una privata nella costruzione della sfera pubblica. Ristagnano perciò i più disparati corporativismi, settarismi, localismi, una “gabbia d’acciaio” che appare “dorata” solo per le nostre élite autoreferenziali.
Tuttavia non bisogna scambiare, come qualcuno fa in questi giorni, il low concept di capitalismo relazionale al limite del crony, che in parte è nel caso italiano (la corruzione è alta), e l’high concept di capitalismo relazionale che mette in valore l’interconnessione, la capacità di fare networking positivo. E’ un po’ come confondere il neonotabilato di oggi con le net élite (Carboni, 2008), che esercitano traenza proprio in virtù di reti relazionali fiduciarie. Attenzione quindi a non indignarsi troppo guardando solo una faccia del capitalismo relazionale, a considerare le persistenze sempre più forti delle novità.
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