Nei campus dell’hardware. Lo strumento con cui state leggendo questo articolo è probabilmente uno dei molti prodotti della Foxconn, un’impresa taiwanese che copre circa il 40% della produzione di elettronica a livello mondiale operando in subappalto per marchi quali Canon, Dell, Hewlett-Packard, Intel, Microsoft, Motorola, Nintendo, Nokia, Samsung, Sony, Panasonic e soprattutto Apple. Nel 2015, quando l’azienda ha acquistato la giapponese Sharp per circa 5,2 miliardi di euro, i suoi profitti erano pari a 4,1 miliardi di euro, mentre il fatturato sfiorava i 125 miliardi di euro (il 5% circa del debito pubblico italiano). Numeri resi possibili soprattutto dai suoi lavoratori cinesi, circa un milione, e dagli altri trecentomila sparsi tra altri Paesi asiatici, l’Europa orientale, il Messico e il Brasile.
La produzione di hardware su cui poi applicare qualche algoritmo intelligente ha i suoi costi occulti, a partire dal mondo minerario costituito in larga misura da migliaia di minatori che estraggono, spesso a mani nude, il coltan, elemento essenziale dei nostri aggeggi elettronici, sotto il tallone dei signori della guerra in Congo.
Non va meglio dove questo coltan una volta lavorato finisce per arrivare, appunto alla Foxconn: nel 2010 una ventina di operai cinesi si sono suicidati all’interno dei suoi «campus», cioè delle gigantesche strutture che comprendono sia i reparti produttivi sia i dormitori dove alloggia larga parte della manodopera. Alla catena di autoannientamento degli operai, la Foxconn aveva inizialmente risposto in modo ambivalente costruendo reti anti-suicidio nei dormitori e istituendo un numero verde per raccogliere le lamentele.
Mentre il dibattito politico e scientifico si sofferma sulle potenzialità dell’automazione, discettando della residualità del lavoro umano, i campus costituiscono una forma organizzativa dove non solo il tempo di lavoro e di vita sono sovrapposti, ma anche dove la procreazione e finanche l’intimità sono negate, essendo i dormitori rigidamente separati per sesso. Il campus principale della Foxconn, quello di Shenzhen, occupa un numero di persone pari a una media città italiana (250-300 mila), ed è costituito in larga misura da giovani che sono emigrati qui dalle aree rurali e da una quota importante di tirocinanti delle scuole professionali. All’interno degli stabilimenti migranti e tirocinanti sottostanno a una ferrea gerarchia con spasmodici ritmi durante il turno lavorativo di 12 ore giornaliere per un salario che raggiunge i circa 300 euro mensili. Finito il turno di lavoro li accoglie il dormitorio, dove condividono gli stanzoni con altri migranti, dalle 5 fino alle 12 persone. Con un sindacato legato a doppio filo al governo cinese, non è sorprendente che a lungo la principale forma di resistenza per gli operai sia stata quella di votare con i piedi, cercando occupazione altrove. Tuttavia, in questi ultimi anni le proteste autorganizzate sono cresciute di intensità estendendosi anche territorialmente e spingendo l’azienda a sviluppare nuove strategie spaziali e tecnologiche. Da un lato l’impresa ha iniziato a sostituire i lavoratori con robot che non possono né scioperare né suicidarsi. Il costo dell’automazione del lavoro è oggi più abbordabile rispetto ai salari cinesi in forte crescita, sebbene i robot non siano sempre precisi quanto i consumatori esigono. Dall’altro lato, la Foxconn nel 2015 ha annunciato la costruzione di dieci nuove fabbriche in India, dove dovrebbero trovare occupazione circa 50 mila persone. Lo spostamento in India è una delle possibilità che l’azienda ha messo in campo fin dai primi anni 2000, quando ha iniziato a investire anche in Europa.
Il sito principale della Foxconn in Europa è a Pardubice, nella Repubblica ceca; a questo stabilimento acquisito nel 2000 l’azienda ne ha poi affiancato un altro nel medesimo Paese qualche anno più tardi, e in seguito uno in Ungheria e uno in Slovacchia. Inoltre, dal 2011 la Foxconn produce anche nei pressi di Corlu, una città nella parte occidentale della Turchia. Queste cinque fabbriche producono computer portatili e da tavolo per Hewlett-Packard, Cisco, Chimei e Innolux, ma anche televisioni per Sony, oltre ad altri prodotti. Certo, niente di comparabile con gli stabilimenti cinesi, visto che tra Europa e Turchia si superano a malapena i 10 mila addetti. A Pardubice lavorano attualmente circa 4.500 persone, poco meno della metà deille quali sono migranti europei assunti da due agenzie di reclutamento internazionale, Express People e Xawax, a cui l’azienda si affida. Le agenzie, con base ufficiale in Slovacchia ma con ramificazioni in Bulgaria, Polonia, Romania, reclutano il personale direttamente nel Paese di origine, organizzano il loro trasporto e la loro distribuzione negli alloggi (ex-caserme e alberghi a buon mercato) alla periferia della città, e controllano le prestazioni lavorative fin dentro gli stabilimenti. Un’impresa nell’impresa, si potrebbe dire.
Come in Cina, anche qui i turni per larga parte degli operai, diretti e indiretti, sono di 12 ore giornaliere con ritmi lavorativi che non lasciano spazio ad approssimazioni, mentre i salari operai non superano solitamente i 500-600 euro mensili. Un turnover vorticoso del personale ha spinto l’azienda nel 2015 sia ad aumentare i salari dei dipendenti diretti e indiretti evitando qualsiasi confronto con il sindacato sia a contrattare con il governo ceco l’importazione di 800 lavoratori dalla Mongolia. Più affidabili e più stabili dei migranti europei che possono liberamente muoversi all’interno dell’Ue, i lavoratori mongoli vengono assunti direttamente dalla Foxconn a condizione che si impegnino a imparare la lingua ceca, mentre alle lavoratrici si suggerisce a bassa voce che la gravidanza potrebbe costituire un elemento turbativo delle necessità aziendali. Nel frattempo il sindacato, pur presente, si limita a gestire qualche residuo di Welfare del periodo socialista o a contrattare per i dipendenti diretti, in larga misura cechi.
Nonostante le apparenti analogie delle condizioni lavorative in Cina e nella Repubblica ceca, il contesto locale continua a costituire un elemento centrale nella produzione manifatturiera, evidente innanzitutto nelle differenti reazioni della manodopera a condizioni di lavoro particolarmente pesanti. La ricerca, e talvolta la vera e propria costruzione, di contesti idonei dove localizzare le proprie produzioni sono destinate a diventare attività di primaria importanza poiché il consumo di apparecchi elettronici non pare certo rallentare. Piuttosto, la competizione basata sul prezzo e sulle innovazioni si va facendo sempre più feroce, ripercuotendosi evidentemente sulle condizioni di lavoro poiché l’azienda intende ottenere una produzione economicamente vantaggiosa.
Mentre l’importanza degli strumenti elettronici non declinerà a breve, una parte della manodopera che li produce non pare però rassegnata ad aspettare nei campus la sua sostituzione con dei robot.
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