La vicenda giuridica è confusa, ma la vulnerabilità del sindaco di Riace sembra esulare dalle sue leggerezze e derivare in sostanziosa parte dall’orribile clima politico diffuso ad arte nel nostro Paese. Purtroppo, a margine della mobilitazione per difendere le ragioni ideali di Domenico Lucano, non si è aperta alcuna riflessione strategica su come la trasfigurazione in simbolo di singole esperienze alternative finisca per fornire un facile obiettivo alle ruspe dei diretti avversari politici – che di Riace temono la concretezza e la complessità, il suo valore reale che non siamo capaci di raccontare. Nulla di nuovo sotto queste nubi: chi ha visto Boldrini e Salvini ospiti a Otto e Mezzo prima delle scorse elezioni (praticamente l’unico “faccia a faccia” a disposizione degli elettori) conosce le potenzialità autodistruttive di chi avrebbe dalla sua validi argomenti, ma non riuscendo a uscire dai confini della propria icona di fatto contribuisce – nel caso specifico con l’ausilio di stupidi cartelli-hashtags – alla costruzione retorica del nemico che si pretenderebbe di dileggiare. La parabola umana di Roberto Saviano è la personificazione di questo meccanismo perverso: in anni e anni di sovraesposizione mediatica a difesa di qualsivoglia causa dei “buoni”, abbiamo involuto una persona in un totem, un oggetto che per sua natura è funzionale al tiro al bersaglio della “comunità” che in quel simbolo non si può o non si vuole riconoscere. Il risultato è quello di una spettacolo autoreferenziale, la cosa più lontana da un confronto politico propriamente detto.

Il problema che chi si oppone alla visione e alle politiche giallo-verdi continua pericolosamente a trascurare è quello del consenso politico. La domanda che dovrebbe assillare non soltanto il Partito democratico ma tutti coloro che senza riconoscersi in quel partito riconoscono nell’attualità i segni di una deriva autoritaria è: come facciamo a sostituirci a questa maggioranza? Gli esempi contano, lunga vita a Mimmo Lucano, ma la sua generosità servirà a poco se una piattaforma politica alternativa a questo governo – che purtroppo è più omogeneo e coerente di quanto non venga descritto da chi ancora ripone le sue speranze in Roberto Fico – non riuscirà a convincere milioni di persone che allo scorso turno hanno votato Lega e 5 Stelle del fatto che la capacità di proteggere chi ti chiede aiuto è la cifra di una società avanzata, del fatto che un’accoglienza ben gestita può essere una risorsa anche dinanzi al nostro impoverimento, del fatto che per non preoccuparsi delle agenzie di rating basta non contrarre debiti, del fatto che l’Europa unita è l’orizzonte reale delle nostre vite, del fatto che le istituzioni disegnate dalla Carta costituzionale e l’articolo 11 che rimanda alle istituzioni internazionali di cui facciamo parte sono garanzia super partes dei nostri diritti e del nostro vivere civile, anche quando ci impongono forme e limiti, anzi, proprio quando lo fanno. Purtroppo, al momento, l’indignazione per la brutalità, la volgarità e la faciloneria del giallo-verde fatica a uscire dal privato delle nostre coscienze – non sappiamo se in qualità di padre costituente o di cominternista, senza dubbio in veste di politico puro, Togliatti ci inviterebbe a smetterla di fare le “anime belle” – e a coagularsi in un’azione pubblica che abbia come obiettivo il governo del Paese una volta che questa sbornia autolesionista sarà smaltita.

La gravità e i pericoli della situazione in cui ci troviamo non risiedono soltanto nella deriva politica e culturale di una società sempre più vecchia, spaventata e sola in mezzo al mare (l’Italia di Conte è un Paese senza politica estera); ma nella mancanza d’alternativa in cui gli alternativi lasciano bollire gli attuali governanti, in quell’apolitico senso di superiorità morale che indebolisce i nostri valori e non tiene conto del fatto che i nostri avversari indicano proprio nella nostra cultura e nella nostra idea di mondo un privilegio sociale.

Dal 4 marzo a oggi, solamente due visioni politiche si sono contrapposte al racconto gialloverde: quella di Papa Francesco, qui a Bologna rappresentato dall’arcivescovo Matteo Zuppi, e quella del presidente dell’Inps Tito Boeri. Il primo parla al cuore cristiano, che sulla Bibbia non giura ma la legge (“fui straniero e mi accoglieste”: quanta solidarietà concreta è mobilitata da quel versetto è un fatto che la sinistra laicista fatica a riconoscere); il secondo parla alla testa di chi sa far di conto, ricordando che l’andamento della nostra piramide demografica ci impone di aprirci al mondo e a nuova forza lavoro. Entrambe le visioni sono certamente parziali e insufficienti, anche perché provengono da attori non propriamente politici, e che da prospettiva laica sarebbe auspicabile non sconfinassero così spesso dai loro ruoli; ma forniscono materiale utile a una possibile narrazione alternativa del presente.

In un brillante articolo pubblicato dalla rivista “Not”, Fabrizio Luisi ha recentemente analizzato il vuoto comunicativo delle forze progressiste pur presenti nel nostro Paese partendo dall’assenza di un efficace archetipo letterario da contrapporre al ribelle (Di Maio) e al guerriero (Salvini). Secondo Luisi il ribelle è narrativamente immune alle accuse di incompetenza e di incoerenza, perché le sua ragione è la novità, per definizione inesperta e oscillante; per lo stesso motivo, attaccare un “guerriero” con la bandiera dell’etica e dell’umanesimo non è efficace, perché la guerra è uno stato d’emergenza nel quale è concesso l’inammissibile (chi si richiama alla Resistenza dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro). Per chi se lo chiedesse, anche Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno cavalcato un loro archetipo – il Sovrano che non deve chiedere, il primo, e il Mago che non può rallentare, il secondo. Due personaggi che dal punto di vista comunicativo sono stati superati dagli eventi, perché – completa Luisi – ogni storia esiste in relazione alle altre, e come dimostrano le arene europee, sempre più divise tra sovranisti ed europeisti (Altiero Spinelli lo aveva previsto nel 1941), anche la storia italiana si inserisce in un contesto più ampio, che però solo i sovranisti stanno riuscendo a utilizzare a loro favore, promettendo che prima di (e non dentro a) quel contesto vengono i bisogni degli italiani.

Prolungando il ragionamento di Luisi, per promuovere il “modello Riace” non dovremmo limitarci a difenderne il simbolo idealizzato, ma cominciare sin da ora a lavorare a una piattaforma politica e a un correlato archetipo narrativo che sia in grado di contendere il consenso ai miti giallo-verdi. Si obietterà a tal proposito che costituzione e Europa sono due parole di settant’anni, e che dispongono al massimo dell’archetipo del “vecchio saggio”. Contro-obiettare che i concetti di sangue e suolo sono ancora più vetusti è rassicurante, ma non risolve il problema della fine del dopoguerra: il senso profondo di quel compromesso sociale e di quella pace continentale sono sempre più lontani nel tempo. Bisogna rendersi conto che la difesa passiva delle parole dei nostri nonni non basterà a costruire un consenso nuovo: per opporsi con nuove forze all’arretramento bisognerà avere il coraggio di uscire dalle cittadelle assediate dei nostri bei valori e di metterci testa e mani nella storia, nei problemi e nei rischi del XXI secolo: il secolo di internet, che ci piaccia o no.

Una lezione di come si possa essere politici nel presente ce l’ha fornita l’eurodeputato Guy Verhofstadt nel maggio scorso, quando il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg è stato convocato dall’Europarlamento per riferire sullo scandalo Cambridge Analytica. Difficile credere che Mark si sarebbe scomodato per riferire alle nostre camere: è stata l’esistenza di un parlamento europeo a costringerlo a confrontarsi con un demos diverso da quello rappresentato nel Congresso degli Stati Uniti. Nessun commentatore e nessun politico “progressita” italiano ha saputo sottolineare questo fatto e approfondire i contenuti di quella giornata importantissima; è solo un esempio ma ci dà la misura di quanto siamo lontani dalla discussione dei nostri problemi reali, di quanto tempo spendiamo in compagnia dei profili del Salvinaio, lontano dal pulsare della nostra epoca e dai dilemmi della nostra contemporaneità. Quante energie sprechiamo ogni giorno in uno spettacolo che non è degno di occupare lo spazio del dibattito politico? Se un qualsiasi politico d’opposizione le avesse impugnate in chiave italiana, forse le domande poste da Verhofstadt (il cui partito europeo ha rifiutato il M5S) a Mark Zuckerberg (la cui invenzione contribuisce ogni giorno al consenso dei giallo-verdi) avrebbero suggerito al logorato pubblico della web-politica l’ipotesi che anche nel campo dell’europeismo, della democrazia liberale e dello stato di diritto ci sono ribelli e guerrieri capaci di emozionare. Eletti che non se la prendono con gli ultimi, ma con i giganti. Il giorno in cui sapremo definire un campo d’azione e raccontare senza balbuzie qual è la nostra battaglia sapremo anche difendere Riace.