Nell’Italia sballottata dalla crisi, tra annosa inconcludenza della politica e disagio socioeconomico, il dilagare dell’astensionismo dimostra che la sfiducia sociale ha ormai raggiunto livelli allarmanti per la stessa legittimazione delle istituzioni. È anche più grave perché, nel caso, ha riguardato i comuni, le istituzioni più prossime ai cittadini, segnalando un insidioso slittamento delle nostre comunità civiche da strutture di potere “di fazione” o “di coalizione” a una struttura“amorfa”, in cui le leadership locali fanno fatica a emergere e a legittimarsi: dalla “primavera dei sindaci siamo passati alla “mezza” stagione dell’astensionismo.
L’opinione pubblica diffusa dai media attribuisce la responsabilità della crescente defezione elettorale e della scarsa fiducia circolante nel Paese (partiti al 9%, Parlamento al 15%) ai comportamenti autoreferenziali dei politici, ribattezzati "casta". Tuttavia, la società, se non complice, non si può dire estranea a questo distrust generale. Gli italiani non hanno fiducia negli altri, se non nelle relazioni familiari: solo due su dieci ritengono che la gente sia degna di fiducia, contro i tre in Germania, i quattro in Svizzera i circa sei in Cina e Danimarca (Bes/Istat 2013). Se gli europei dubitano della nostra affidabilità è anche perché tra noi la fiducia scarseggia e il pessimismo dilaga. Qui cominciano i nostri guai: individualismo e familismo amorale si scaricano anche sul mercato del consenso politico.
La scarsa fiducia negli altri è anche matrice di qualunquismo, antipolitica, di comportamenti indifferenti e impolitici. Ne risentono le relazioni nella vita pubblica: l’associazionismo civico a stento bilancia la realtà di una vita pubblica segnata dalla caduta della partecipazione politica (gli iscritti ai partiti, i voti validi) e dall’inefficienza, dalla corruzione e dallo spreco, al limite del malaffare. Il deficit di fiducia sociale si riverbera negativamente anche sulla nostra mentalità, ad esempio, per niente convinta che se ciascuno di noi tenesse condotte meritorie, tutti gli altri farebbero altrettanto; da qui la “selezione avversa” e l’alterità del merito nella cultura sociale e nelle nostre élite. Anche alla base dell’astensionismo c’è un difetto di fiducia relazionale tra gli italiani tra i quali resta basso il senso di appartenenza allo Stato.
Questa coltre di nebbia e di scettico disincanto, che avvolge e separa politica e società, ha tenuto fino a oggi il nostro Paese in uno stato di sospensione, tra sospetto e sfiducia, in un’immobile emergenza senza panico, ma senza pace, con la paura di cadere vuoi dall’ottovolante dei mercati finanziari vuoi nei gorghi della politica inconcludente. Un simile stato d’animo sociale, a volte apatico a volte rancoroso, sempre disincantato e irrequieto, costituisce un campo minato per la politica e il governo. Persino i rapporti che si occupavano di benessere (il ministro Giovannini ne sa qualcosa) sono oggi ridotti a misurare la temperatura del malessere, a snocciolare rosari di sventure per la società italiana. I prezzi sono cresciuti più dei consumi e dei redditi, sono diminuiti i risparmi e le aspettative dei consumatori, la concentrazione della ricchezza aumenta a favore del 10% più ricco della popolazione e tornano a salire le disuguaglianze che ci vedono al top tra i Paesi europei, per non parlare di disoccupazione giovanile da record o delle piccole imprese falciate dal credit crunch.
Le conseguenze sono logoramento sociale e produttivo, ma anche impotente disperazione, come evidenziato da decine di tragici suicidi. I poveri sono raddoppiati e gli acrobati di fine mese, ex-ceto medio, sbarcano il lunario privandosi di una settimana di vacanza (4 su 10), del riscaldamento di casa (2 su 10) o pagano in arretrato l’affitto. Si cade rapidamente in povertà: basta perdere il posto di lavoro o essere esodato o pensionato a 500 euro. Oltre 3 milioni di disoccupati, 7 quelli esclusi dal lavoro, circa 7.000 imprese chiuse da inizio d’anno. La sfiducia e il pessimismo creano quest’ombra tenebrosa che si stende sulla società come un malessere politico mescolato a un implacabile disagio sociale, che rischia di ingoiare anche la parte economica e culturale del Paese in cui la fiducia ha solide radici. Dopo tanto penare, ora il Paese si aspetta che Letta, come il marinaio Marlow in Cuore di tenebra, abbia il buon senso “borghese” di riportare in fretta la barca ad attracchi più tranquilli, dove la fiducia può rigenerarsi tra le élite politiche, fin qui riluttanti a prendere decisioni. I punti istituzionali sono da tempo chiari: innanzitutto, la riforma della legge elettorale, finora infrangibile per cupa volontà delle segreterie politiche, ritrose ad accantonare gli interessi di parte. Inoltre, ci sono le riforme costituzionali e soprattutto scelte concrete di politica economica e del lavoro, di contrasto al disagio sociale, indispensabili per ricreare un tessuto fiduciario nel Paese.
È molto improbabile che tutto ciò possa andare in porto in pochi mesi, dopo quasi quindici anni di disincanto per false partenze. Letta dovrà dimostrarsi un “negoziatore” di prima grandezza, capace di conciliare un ponte di comando eterogeneo, ma anche di convincere e ri-motivare il Paese stordito dalle false promesse e dagli insuccessi dei leader “persuasori”. Un compito reso oltremodo impervio dalle finanze pubbliche, dalle derive extraparlamentari di un parlamento di nominati e dalla risacca di una sorta di società extraparlamentare e astensionista che sta rendendo asfittico il mercato politico del consenso.
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