Il diritto di voto a cinquant’anni dal Voting Rights Act. Sono, queste, settimane particolarmente intense per i neri negli Stati Uniti. Da un lato, le commemorazioni dei 50 anni dalle marce di Selma, che tra il 7 e il 25 marzo del 1965 portarono in Alabama migliaia di persone per rivendicare il diritto al voto degli afro-americani. Dall’altro, il movimento #Blacklivesmatter, che da Ferguson si è esteso a tutta la nazione e che continua a chiedere una riforma del sistema di giustizia penale e la fine delle violenze della polizia nei confronti dei giovani di colore. Settimane intense ed emozionanti anche per Obama. Mentre parlava alla nazione dal Edmund Pettus Bridge di Selma, lo scorso 7 marzo, con un appassionato discorso sull’importanza della memoria e su quanto la marcia di Selma abbia avuto un impatto nella sua vita, a Madison, nel Winsconsin, centinaia di persone scendevano in strada per protestare contro l’ennesima uccisione di un ragazzo afro-americano disarmato per mano di un poliziotto. Un tempismo profetico che mostra le due facce dei rapporti razziali negli Stati Uniti, dove un afro-americano può essere presidente, ma anche il target prediletto delle “attenzioni” della polizia; dove può prendere decisioni politiche in grado di condizionare gli equilibri globali, ma deve lottare per il riconoscimento dei diritti politici.
E proprio nei giorni della commemorazione delle marce di Selma, il Joint Center, un importante centro di ricerca su tematiche politiche ed economiche, ha pubblicato un rapporto sullo stato del diritto di voto a cinquant’anni dal Voting Rights Act. Il quadro che ne emerge è particolarmente interessante perché mostra da un lato gli enormi progressi fatti nella registrazione al voto dei neri, mentre dall’altro come molti Stati (a guida repubblicana) abbiano cercato nuovi modi per tenere lontani gli afro-americani dalle urne. Un tentativo favorito anche dalla Corte Suprema, che nel 2013 ha dichiarato incostituzionale la sezione del Voting Rights Act che obbligava alcuni Stati a ottenere l’approvazione di autorità federali nel caso in cui questi avessero voluto modificare la legislazione sul voto. L’obiettivo di quella sezione del pacchetto di leggi firmato dal presidente Johnson era di impedire a Stati con un passato di discriminazione razziale di attuare provvedimenti restrittivi in materia elettorale. La decisione della Corte ha depotenziato enormemente il Voting Rights Act partendo dal presupposto che quella sezione è sostanzialmente anacronistica. Una sentenza controversa che ha permesso a molti Stati, quasi tutti nel Sud, di utilizzare forme diverse di limitazione del diritto di voto - come per esempio la necessità di possedere un documento con foto - che hanno penalizzato principalmente gli afro-americani, in particolare quelli più poveri, nelle elezioni di mid term del 2014.
Si tratta di un problema rilevante a un anno e mezzo dalle elezioni presidenziali, problema che però favorisce il partito repubblicano. Il rapporto del Joint Center evidenzia infatti come il voto negli Stati Uniti sia fortemente polarizzato su linee razziali, con i repubblicani in grado di attirare il 62% dell’elettorato bianco, ma solo il 10% di quello nero. Questi dati, oltre a mostrare una volta di più quanto sia inadeguato parlare di Stati Uniti post-razziali, ci dicono che l’esclusione di una parte dell’elettorato nero dal voto, che tendenzialmente vota democratico, potrebbe risultare determinante nelle elezioni del 2016. A questo bacino di voti persi per i democratici, si aggiungono quelli delle persone in carcere o con una condanna penale alle spalle, che in molti Stati sono esclusi dall’elettorato attivo. Dato che quasi due terzi dell’enorme popolazione carceraria statunitense (2,2 milioni) è composta da neri o ispanici, è facile capire quanto questo possa condizionare i prossimi risultati elettorali.
Come ha ricordato Obama a Selma, i progressi fatti dalle marce sono enormi, ma il cammino non è completo. Un cammino che, con il Congresso in mano ai repubblicani, difficilmente potrà beneficiare di un’accelerazione in materia di tutela del diritto di voto. All’inizio del 2014, per esempio, tre membri del Congresso hanno elaborato un pacchetto di leggi - il Voting Rights Amendment Act - allo scopo di reintrodurre alcune delle normative che erano state dichiarate incostituzionali dalla Corte. La proposta però non ha ancora trovato il necessario sostegno bipartisan, in particolare tra i repubblicani. Dei 23 membri del Congresso del Grand Old Party presenti a Selma, per esempio, nessuno aveva sostenuto il Voting Rights Amendment Act.
Le commemorazioni delle marce di Selma hanno certamente riportato l’attenzione sul voto negli Stati Uniti e sulla partecipazione elettorale delle porzioni più povere della popolazione. Molte proposte di riforma arrivano, tra l’altro, proprio dai protagonisti delle storiche marce: dare la possibilità di votare in più giorni e non solo il martedì; garantire il diritto di voto anche a chi è in carcere o a chi ha scontato la propria pena; eliminare le restrizioni che si sono moltiplicate dopo la decisione della Corte suprema del 2013 (più di 300 in diversi Stati del Sud). Sarebbe il modo migliore per onorare la memoria di Selma.
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