Sembra che uno spettro di tipo nuovo si aggiri per le piazze e i luoghi di ritrovo delle città italiane: bande (o «branchi», nel linguaggio che talvolta prevale) di giovani di «seconda generazione» invadono lo spazio pubblico, facendone il teatro di devastazioni e violenze.
L’ultima volta il 2 giugno scorso, quando centinaia di ragazzi (fino a 2.500, secondo alcune fonti), in gran parte di presunta origine nord-africana, sono confluite a partire dalla tarda mattinata a Peschiera del Garda, sull’estremità meridionale del lago.
L’evento, battezzato provocatoriamente «L’Africa a Peschiera» nella convocazione su TikTok e nato come raduno di appassionati di musica trap, è poi degenerato. Sul lungolago si sono verificate risse e vandalismi; successivamente, su uno dei treni di ritorno verso Milano, alcune ragazze hanno denunciato pesanti molestie, accompagnate da invettive a sfondo razziale. «Le bianche non salgono, siete delle privilegiate» è una delle frasi riportate. La procura di Verona ha aperto due inchieste distinte e sta ora setacciando la solita valanga di immagini e filmati riversata sui social.
L’eco mediatica è stata intensa, ancorché di breve durata. Si è osservata una polarizzazione asimmetrica, ormai abbastanza consueta in eventi di questo tipo. Da un lato, i media mainstream (etichetta solitamente applicata a quelli a più larga diffusione e tendenzialmente moderati), pur rilevando la presunta identità «etnica» della maggioranza dei facinorosi, hanno evitato generalizzazioni troppo esplicite e tacciabili di razzismo. Dall’altro lato, televisioni e giornali schierati a destra hanno lanciato accuse infuocate di censura e di ipocrisia politically correct. Esemplare da questo punto di vista, «Libero», che il 6 giugno, con il titolo «Immigrati molestatori, sinistra muta» denunciava il presunto «imperativo etico progressista di nascondere la delinquenza degli immigrati».
Anche le reazioni politiche sono state asimmetriche: mentre nel centrosinistra è prevalso l’understatement e il canonico «lasciamo lavorare i magistrati», nel campo opposto non sono mancati i proclami roboanti, come quello del presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, che ha tuonato: «non ci saranno scuse, [...] con certi comportamenti si finisce in carcere. Subito. Senza sconti. Senza sociologia, senza destra o sinistra». L’equiparazione della sociologia a fattore di oscuramento di una presunta «verità» dei fatti suona indubbiamente sinistra, ma come emerge da un progetto di ricerca in corso che studia le narrazioni sulle migrazioni in vari Paesi europei, si tratta di dinamiche comunicative purtroppo assai diffuse.
Non è facile, e forse è avventato, abbozzare un’analisi di fronte a un quadro ancora confuso, in movimento e inquinato da strumentalizzazioni. Tuttavia, sembra che la rilevanza dell’accaduto – dei «fatti» in sé, ma forse ancor più delle loro possibili ripercussioni sociali e culturali di medio e lungo termine – autorizzi alcune considerazioni.
Innanzitutto, non siamo certo di fronte a una novità assoluta. Limitandoci agli ultimi due anni, si possono ricordare almeno due episodi di un certo rilievo in cui raduni di piazza di natura diversa, in parte degenerati in atti violenti, hanno visto la partecipazione di componenti più o meno significative (non quantificabili con precisione, ma sistematicamente amplificate dai media) di giovani di origine straniera.
Il 25 ottobre 2020, in varie città d’Italia, folle eterogenee invasero i centri città esprimendo rabbia e frustrazione per le conseguenze economiche della pandemia e delle conseguenti misure restrittive. A Torino, in piazza Castello, si produsse un’aggregazione inedita di ultras calcistici, Neet («not in education, employment or training», etichetta ormai radicata della nuova marginalità giovanile), precari della ristorazione e dello spettacolo. La componente con retroterra migratorio era di entità imprecisabile, ma sui media locali guadagnò una visibilità sproporzionata e poco invidiabile.
Più gravi e più a lungo dibattuti i fatti di Capodanno 2021 in piazza Duomo, a Milano, che a loro volta riproducevano, in formato minore, i drammatici eventi del San Silvestro di cinque anni prima nella città tedesca di Colonia. Nella notte milanese, decine di giovani maschi accerchiarono e commisero gravi abusi sessuali nei confronti di alcune ragazze. Il processo in corso vede come imputati principali un torinese e un milanese, entrambi di origine nord-africana.
Nel caso di "L'Africa a Peschiera", l’origine straniera non è stata solo "ascritta" da giornalisti e commentatori, ma anche orgogliosamente "rivendicata" da alcuni partecipanti
Rispetto a questi due precedenti, però, in ciò che è accaduto sulle rive del Lago di Garda il 2 giugno 2022, si può rilevare un significativo aspetto di novità. In questo caso, l’origine straniera (africana, in particolare) non è stata solo più o meno sprezzantemente «ascritta» da giornalisti e commentatori, ma anche orgogliosamente «rivendicata» almeno da una parte, peraltro assai visibile, dei partecipanti. Inoltre, questa provocatoria rivendicazione di alterità («L’Africa a Peschiera») non si è manifestata solo ex post, bensì già nella fase dell’organizzazione del raduno, quindi con una chiara valenza programmatica ed evidenti obiettivi di mobilitazione.
Gli slogan e le bandiere di vari Stati africani (perlopiù Marocco e Tunisia, stando alle testimonianze) esibite il giorno della Festa della Repubblica in riva al lago di Garda sono segnali simbolici forti, a cui l’Italia non è abituata. Ma, se allarghiamo lo sguardo ai maggiori Paesi europei, specialmente a quelli dove l’immigrazione straniera ha radici coloniali più antiche e profonde che da noi, constatiamo che dinamiche di questo tipo sono presenti da decenni.
Occorre tuttavia diffidare delle analogie superficiali. Per esempio, si sono sprecate, in questi giorni, le analisi che hanno fatto perno sulla presunta diffusione anche da noi del «modello banlieue», eletto a simbolo della mancata integrazione delle generazioni scaturite dall’immigrazione. In realtà, la conformazione delle città italiane non è generalmente paragonabile a quella prevalente oltralpe. Non che da noi – a Milano, Genova, Torino o Bologna – i «casermoni» di periferia non esistano, ma sono stati costruiti per gli immigrati interni, non per quelli stranieri. Nel caso italiano, la concentrazione residenziale di famiglie extra-europee in aree periferiche si è verificata in misura assai più limitata che a Parigi o a Lione. Infatti, nelle aree metropolitane del Centro Nord, le percentuali più elevate di residenti stranieri si riscontrano in quartieri semi-periferici, degradati e poveri di servizi, come Barriera di Milano a Torino, Lagaccio a Genova o la zona di Via Padova a Milano; tutti contesti molto diversi dall’icona della banlieue consacrata in un film che ha fatto epoca, il francese La haine (M. Kassovitz, 1995).
Tutt’al più, si può dire che quelle i cui giovani rappresentanti si sono radunati in piazza Duomo a Capodanno o sulle rive del Garda il 2 giugno scorso, sono «banlieue sociali, non urbane». Bolle di discriminazione, la cui specificità salta all’occhio leggendo le statistiche, più che sorvolando i suburbi in elicottero. Sotto i colpi delle crisi a cascata dell’ultimo decennio (spread, pandemia, inflazione da guerra), queste sacche di esclusione, per quanto poco territorializzate e aggregabili solo grazie ai social network, si stanno gonfiando sempre di più.
Per rendersene conto, basta dare uno sguardo ai dati Istat sulla povertà. Come mostra il grafico sottostante, una famiglia straniera su tre vive ormai in condizioni di grave indigenza, quasi sei volte il dato relativo agli italiani. Si tratta di un valore di per sé agghiacciante, che poi si aggrava ulteriormente se si considerano le sole famiglie con figli minorenni.
Questa asimmetria clamorosa tra nativi e immigrati, con il fossato che si allarga anno dopo anno, può essere letta anche in un altro modo. Di fronte ai vari shock esogeni che ci hanno investiti nell’ultimo decennio (innescati da fattori finanziari, geopolitici o sanitari), la popolazione immigrata ha sempre operato come una sorta di ammortizzatore, assorbendo i contraccolpi economici negativi in misura proporzionalmente maggiore rispetto ai nativi e di fatto, dunque, proteggendo questi ultimi. Ma nelle narrazioni dominanti (compreso il discorso politico delle forze che si vogliono più liberali, progressiste e attente al sociale) di questo «effetto cuscinetto» non vi è traccia. Questo ruolo protettivo, oggettivamente svolto da parte delle minoranze immigrate nei confronti di «noi» indigeni, è completamente rimosso dai nostri media e dalle nostre coscienze.
È in questo quadro, quindi, che bisogna collocare i «fatti» di Peschiera. Senza volere in alcun modo occultare le responsabilità individuali per i vandalismi e le violenze, sarebbe tuttavia irresponsabile non mettere a fuoco questo pesantissimo accumulo di determinanti sociali ed economiche. In un Paese in cui la povertà sta assumendo connotazioni etniche sempre più nette, non c’è da sorprendersi se anche la reazione all’impoverimento faccia leva su fattori identitari. E non c’è da sorprendersi se questa reazione, più che come protesta consapevole, si manifesti nelle forme di tumulti o rivolte estemporanee (riots è il termine prevalente in contesti anglofoni, émeutes in quelli francofoni), talvolta purtroppo anche violenti.
Rifiutarsi di contestualizzare il fenomeno, leggerlo e affrontarlo solo in chiave di ordine pubblico, senza agire sulle sue radici (come avviene con il Pnrr, che di disuguaglianze e coesione sociale parla solo in modo rigorosamente e ipocritamente colour-blind), vuol dire spalancare la strada a una società sempre più gerarchizzata proprio in base al Paese di nascita dei genitori e al colore della pelle.
Non contestualizzare il fenomeno e affrontarlo solo in chiave di ordine pubblico, senza agire sulle sue radici, significa spalancare la strada a una società sempre più gerarchizzata proprio in base al Paese di nascita dei genitori e al colore della pelle
Ma la deriva verso una società strutturalmente razzista non è inevitabile. Alcuni indicatori di segno contrario esistono. Per esempio, un’importante indagine realizzata dall’istituto statistico nazionale alcuni anni fa aveva rilevato tendenze incoraggianti, anche nei segmenti solitamente considerati più problematici, come quelli di origine maghrebina:
«la cittadinanza non europea con la quota più elevata di giovani che si sentono italiani è quella marocchina (36%); si tratta di una collettività tra quelle con le più frequenti interazioni con gli italiani: tra i nati in Italia la quota di coloro che frequentano italiani arriva quasi all’82% e quella di chi afferma di parlare molto bene l’italiano sfiora il 73%».
Le fondamenta su cui costruire, insomma, ci sarebbero, ma la volontà politica continua a latitare. La legge sulla cittadinanza resta una leva decisiva. Il processo di riforma, dopo oltre vent’anni di stop and go, ha conosciuto un recente risveglio: un testo unificato sullo ius scholae sta per approdare all’esame dell’Aula di Montecitorio. Eppure, nonostante l’opinione maggioritaria rimanga favorevole (ora con una cospicua minoranza a favore anche tra gli elettori di destra), l’assenza di una robusta mobilitazione popolare e la frammentazione del quadro politico non autorizzano all’ottimismo.
Nel frattempo, contano anche le pratiche quotidiane di ciascuno di noi, a partire da quelle lessicali. In particolare, l’espressione «seconda generazione» risulta sempre meno neutra e accettabile. Chi oserebbe, oggi, etichettare come «immigrati di seconda o terza generazione» i discendenti di quei milioni di italiani che, spostandosi dal Sud al Nord, resero possibili la ricostruzione e il boom? Anche i figli e le figlie di chi invece è arrivato dall’estero hanno diritto ad essere identificati per quello che sono, non in base a presunte «radici». Se invece continuiamo a inchiodarli a un’identità non loro, subalterna e volta al passato, non c’è da stupirsi se rifiutano un futuro comune.
Riproduzione riservata