Jurgen Habermas ha scritto: «[di] fronte al peso inaudito dei problemi sarebbe da attendersi che i politici, senza se e senza ma, finalmente mettessero le carte europee in tavola e con piglio aggressivo chiarissero alla popolazione il rapporto tra costi a breve termine e utilità vera, dunque l’importanza storica del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura delle tendenze d’opinione emergenti dalle indagini demoscopiche e confidare nella forza persuasiva dei buoni argomenti. Davanti a un passo del genere tutti i governi interessati arretrano, tutti gli uomini politici per ora si tirano indietro. Molti si affidano invece a un populismo che essi stessi hanno allevato occultando un tema complesso e non amato. Alla soglia che dall’unione economica porta a quella politica dell’Europa, la politica sembra trattenere il fiato e stringere il capo tra le spalle». Due anni dopo la pubblicazione del saggio che contiene queste osservazioni (Zur Verfassung Europas. Ein Essay, Suhrkamp Verlag, 2011), la situazione non è cambiata in modo significativo: i governanti europei appaiono tuttora affetti dalla “cataplessia” diagnosticata da Habermas. Mentre si moltiplicano i segnali preoccupanti – l’ultimo, di queste ore, è la partecipazione di un delegato di Alba Dorata a un convegno promosso da Casa Pound a Roma – non si avverte un cambiamento di passo nell’iniziativa politica per prevenire l’onda dei populismi. Privi di tono muscolare, incapaci di articolare le proprie ragioni, i governanti europei trattengono il fiato stringendo le spalle.
Come si può spiegare questo atteggiamento? Per quel che riguarda il nostro Paese, uno spunto credo si possa trovare nelle memorie di Guido Carli, pubblicate nel 1993, mentre l’opinione pubblica italiana era alle prese con un’altra crisi, quella di Tangentopoli. Parlando delle prospettive della moneta unica europea, Carli osservava che «la teoria economica non dà risposte univoche sugli effetti distributivi di un’unione monetaria su un’area geografica nella quale coesistono economie con strutture diverse, con ordinamenti giuridici lontani tra loro». Una constatazione che sembrava dar ragione ai prudenti e agli scettici che a quei tempi (sono passati venti anni, ma sembrano cinquanta) consigliavano un approccio graduale alla moneta unica. In realtà, Carli dissentiva dai prudenti (e dagli scettici). La sua ipotesi, infatti, come emerge subito dopo, era che l’Unione monetaria si sarebbe rivelata «il più potente degli strumenti di convergenza economica».
Le riflessioni di Carli in quel lontano 1993 contengono un altro elemento di grande interesse. All’audacia della visione economica si accompagna un atteggiamento molto diverso nei confronti della politica: «ho informato tutta la mia azione all’idea che per il nostro Paese la presenza di un vincolo giuridico internazionale avesse una funzione positiva agli effetti del ripristino di una sana finanza pubblica, ritenendo, pessimisticamente, che senza questo obbligo difficilmente la nostra classe politica avrebbe mutato indirizzo». Più avanti, commentando l’approvazione da parte del nostro Parlamento del Trattato dell’Unione, Carli aggiunge: «[l]a classe politica italiana non si è resa conto che, approvando il trattato, si è posta nella condizione di aver già accettato un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne». Insomma il “vincolo esterno” come fattore provvidenziale. La “logica delle cose” che si impone con la propria forza a un’umanità riottosa. Lo scetticismo di Carli nei confronti della capacità di persuadere dei buoni argomenti, come direbbe Habermas, è evidente.
Non metto in dubbio la buona fede e l’integrità di un uomo di grande dirittura morale, che ha servito il suo Paese, al meglio delle sue capacità, in momenti difficili. C’è tuttavia nella fredda voce della Ragione che parla attraverso l’ex Governatore la radice dello stato di inerte stupore con cui i governanti europei guardano all’onda montante del populismo. La questione di fondo, come ha scritto Ralf Dahrendorf, è che la concezione che sta alla base dell’argomento della “logica delle cose” come di quello del “vincolo esterno” non è politica. A essa manca infatti l’idea della legittimazione da parte dei cittadini elettori. La strada del “federalismo esecutivo” – un’espressione che Habermas riprende da Stefan Oeter – in cui «accordi presi senza alcuna trasparenza e privi di forma giuridica dovrebbero essere imposti agli esautorati parlamenti nazionali con l’ausilio di minacce di sanzioni e di pressioni varie» è l’esito ultimo di un conservatorismo pessimista che vede la democrazia parlamentare come inadeguata per le sfide poste dall’economia globale. Rispetto ai tempi di Carli, però, le cose sono cambiate in maniera significativa. La doccia fredda provocata dalla crisi economica ha portato i cittadini di diversi Paesi del continente, non solo quelli della fascia mediterranea, a rivolgere lo sguardo verso le istituzioni europee. Quello che hanno visto evidentemente non gli è piaciuto. Solo buoni argomenti politici potranno convincerli del contrario.
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