Che cosa succede in Germania. Quasi tutti i giornali di oggi riferiscono di una sconfitta per la cancelliera Merkel nelle elezioni della sua regione, il Mecklenburg-Vorpommern (Meclemburgo-Pomerania Anteriore). Pesa il fatto che il suo partito abbia ottenuto un risultato modesto, dopo la Spd e, sorprendentemente, dietro Alternativ für Deutschland (AfD). In realtà, il risultato non è così negativo per la cancelliera e costituisce un problema soprattutto a sinistra.

La Spd, con il 30,6%, arretra del 5%, più o meno quanto la Linke, fermatasi al 13,2; i Grünen, che ottengono poco meno del 5%, non riescono a entrare nel Parlamento regionale. La Cdu di Angela Merkel deve accontentarsi del 19%, circa quattro punti in meno rispetto al 2011. Da segnalare anche il magro 3% dei neonazisti della Npd, che escono così dal Parlamento del Mecklenburg-Vorpommern.

Il successo di AfD (20,8% e ben 18 seggi) conferma quanto emerso sino a oggi in tutte le elezioni locali: il nuovo partito toglie voti ai progressisti più di quanto faccia ai conservatori e s’incunea in un sistema politico tutt’altro che frammentato (nel Parlamento regionale ci sono appena quattro partiti), limitando del tutto le possibilità di una svolta a sinistra della politica tedesca.

Chi parla di un flop di Angela Merkel, sembra essere più intenzionato a criticare tout court le politiche della cancelliera che a esaminare questi dati. È tuttavia opportuno ricordare che da anni il Mecklenburg-Vorpommern è una regione amara per la Cdu: perlomeno dalla metà degli anni Novanta il partito perde consensi e negli anni Duemila l’emorragia di voti si è fatta consistente (nel 2006, con l’avvio della Grande coalizione federale guidata da Merkel, la Cdu ottenne solo il 28,8%, perdendo quasi il 3% dei voti, e nel 2011 appena il 23%). Soprattutto la stampa anglosassone ha sempre sottolineato i magri risultati della Cdu in questa regione: trattandosi del collegio della cancelliera è difficile, per non dire irresistibile, non proiettare i dati regionali sul livello nazionale.

In realtà, sin dal dicembre 2014 Merkel è apparsa consapevole che la crisi dei rifugiati sarebbe stata il vero banco di prova dell’Europa e del proprio governo. La sua scelta, esattamente un anno fa, di accogliere tutti i rifugiati siriani ha segnato uno spartiacque nella recente storia tedesca: la Kanzlerin sapeva di non avere molte altre alternative, si è fatta carico di gestire la crisi e ha imposto al Paese il suo motto – «Wir schaffen das» – anche nei momenti più difficili (non solo le sconfitte elettorali ma anche, ad esempio, dopo i fatti di Colonia del Capodanno scorso).

Chi ora parla della necessaria di una svolta da parte sua non considera quest’aspetto: Angela Merkel sapeva perfettamente che la crisi dei profughi avrebbe avuto un impatto sul suo governo. Anche elettoralmente: il suo calcolo è, però, di riuscire a guidare questa fase. Anzi ancora di continuare a fare della Cdu il perno della politica tedesca anche per i prossimi anni.

Il dato del Mecklenburg-Vorpommern è interessante proprio per queste ragioni: sembra assai probabile che la Cdu continuerà a governare insieme alla Spd. Le possibilità di una coalizione di sinistra tra Spd e la Linke al momento sembrano minime: del resto il vicecancelliere federale, Sigmar Gabriel, segretario della Spd, esclude ipotesi di collaborazione con il partito di sinistra. Persino Michael Müller, candidato della Spd a borgomastro di Berlino – città che andrà presto al voto e che pure ha già sperimentato governi sostenuti da coalizioni tra socialdemocratici e Linke – ha recentemente dichiarato che intende governare esclusivamente con i Grünen: ipotesi al momento irrealizzabile e che ha fatto dichiarare ai rappresentati berlinesi della Linke di una completa perdita di contatto con la realtà da parte della dirigenza socialdemocratica.

Se, dunque, un’alternativa a sinistra deve essere ancora definita, la Spd si ritrova con una sola concreta opzione politica: quella della Grande coalizione, magari a guida socialdemocratica (progetto sin’ora mai realizzato in Germania, che ha conosciuto solo tre Grandi coalizioni, tutte guidate dalla Cdu).

Alla Cdu, invece, la crescita di AfD consente di mantenere elevato il livello dello scontro con l’alleato socialdemocratico, sapendo che, al momento, può contare a livello federale su diverse possibilità: un’alleanza con i Grünen (già tentata nel 2011 e poi arenatasi), una nuova alleanza con i liberali (che potrebbero tornare in Parlamento) o un proseguimento della Grande coalizione, a guida socialdemocratica e magari allargata ad altri alleati.

In tutto ciò Angela Merkel potrà decidere autonomamente se ricandidarsi o meno: al momento non sembra avere nel suo partito possibili rivali e le critiche che arrivano dalla bavarese Csu sembrano più puntare a una neutralizzazione di AfD che a definire una concreta alternativa politica alle scelte della cancelliera.

Infine: quali scelte quest’ultima dovrebbe rivedere? Quella sulla flessibilità di bilancio in Europa – che farebbe infuriare il suo elettorato e darebbe nuova spinta ad AfD, partito nato nel 2013 come forza contro la moneta unica e per la reintroduzione del marco – o quelle sui rifugiati, una crisi che sta lentamente rientrando anche grazie all’accordo con la Turchia?

Non è dunque irragionevole parlare di un’Angela Merkel «indispensabile» alla stabilità del sistema politico tedesco. Un’indispensabilità dettata da un mix: la crescita di AfD – una crescita fisiologica vista le proporzioni della crisi dei rifugiati – e la totale assenza di alternative credibili nello schieramento progressista.

È possibile che nei prossimi giorni si continui a parlare della necessità di cambiamento di linea politica (e tra meno di due settimane andranno al voto i cittadini di Berlino): in realtà è ragionevole attendersi dalla cancelliera una sostanziale indifferenza verso i risultati di queste elezioni e la conferma delle scelte sin qui adottate. Un comportamento da vera statista, forse l’ultima in Europa.