L’indagine di Perugia procede e si arricchisce di nuovi dettagli. La novità di questi ultimi giorni non sono tanto le manovre e contromanovre che si agitano intorno alla nomina dei capi degli uffici: erano già emerse l’anno scorso e del resto non facevano che confermare i sospetti di molti. La novità – relativa, perché anche qui gli indizi non mancavano – è il coinvolgimento di parecchi giornalisti. In breve, i cronisti giudiziari delle più importanti testate non solo erano in costante contatto con gli esponenti delle varie correnti – fatto ovvio, che peraltro rientra pienamente nella loro attività professionale – ma partecipavano in prima persona alle suddette manovre, in appoggio – o in contrasto – a questo o quel magistrato, a questa o quella corrente: erano attori, non solo osservatori. Forse non c’è nulla di male che un cronista parteggi per una o l’altra fazione. Se però la democrazia si basa anche sulla separazione dei poteri, bisognerebbe evitare che terzo e quarto potere vadano a nozze. Purtroppo, il “circo mediatico-giudiziario” si è ormai stabilmente insediato nel nostro Paese e non può certo operare senza la collaborazione di magistrati e giornalisti.

Con un riflesso quasi pavloviano le notizie perugine hanno immediatamente attivato le reazioni della classe politica. Si è indicato il colpevole – peraltro già noto: le correnti giudiziarie – e subito dopo si è passati alla ricerca dei rimedi. Il guardasigilli ha rapidamente tirato fuori dal cassetto un Ddl che era già circolato nei mesi scorsi e lo ha riproposto con qualche aggiustamento, anche per adeguarlo agli equilibri in evoluzione della maggioranza di governo (ad esempio, dalla nuova legge elettorale del Csm sarebbe sparito il sorteggio, caro al M5S ma molto meno al Pd). Anche se si tratta di proposte in evoluzione – le bozze cambiano a ritmo vorticoso – è interessante considerarle, almeno nelle loro grandi linee. In realtà, si tratta di proposte che non toccano i problemi di fondo della nostra magistratura.

Il reclutamento – cioè la scelta dei magistrati, di coloro che svolgono il ruolo più importante nella macchina giudiziaria – resta immutato. Anzi, viene definitivamente cancellato il ruolo delle scuole di preparazione alle professioni legali, che avrebbero dovuto migliorare la preparazione dei giovani magistrati e favorire una migliore comprensione fra magistrati e avvocati. In futuro, sarà sufficiente anche solo una laurea quadriennale per accedere al concorso e poi al corpo. Si dirà che questo viene fatto per venire incontro a chi non può permettersi di aspettare molto tempo prima di entrare nella carriera. Sarà forse vero, ma in quasi tutti i Paesi democratici – in vista della delicatezza delle funzioni che saranno chiamati a svolgere – i magistrati vengono reclutati dopo lunghi periodi di tirocinio post-laurea (almeno 3 o 4 anni in Germania) o, come in Francia, dando ampio spazio (attualmente si tratta di più del 30% degli accessi) al reclutamento “laterale”, cioè fra coloro che possono vantare precedenti esperienze di lavoro, in modo da diversificare la composizione sociale e culturale della magistratura. Invece, i nostri magistrati continueranno a essere reclutati con un concorso che, quando va bene, seleziona dei brillanti laureati che quasi nessuna esperienza hanno non solo della giustizia ma del mondo, per poi essere formati – come polli in batteria – dall’endogamica Scuola della magistratura.

La riforma della legge elettorale del Csm – una legge che ha già subito diversi ritocchi negli ultimi decenni – è poi il pezzo forte per combattere la “piaga” delle correnti. Introdurre collegi uninominali – come previsto dall’ultima versione del progetto – dovrebbe rendere gli eletti più vicini alla base (nel bene e nel male naturalmente). Più difficile dire se le correnti saranno così estirpate o almeno contenute. La presa che hanno sviluppato in questi decenni difficilmente potrà essere cancellata. Ci si può però domandare se la cancellazione delle correnti sia davvero una cosa solo positiva. Soprattutto, se l’alternativa sarà quella di dare spazio a cordate più o meno opache: oggi, di una cattiva scelta si può chiamare a rispondere una o più correnti (o anche la parte politica che ha favorito l’elezione di questo o quel membro laico). Ma domani, scomparse le correnti, chi sarà chiamato a rispondere?

Si arriva così al punto cruciale: le valutazioni delle capacità professionali dei nostri magistrati. Sono molto importanti perché continuiamo ad affidarci a magistrati reclutati in giovane età e non si può pensare che un giovane – scelto sostanzialmente sulla base di quanto appreso durante gli studi universitari – possegga già al momento del reclutamento tutte le necessarie capacità professionali e le mantenga poi fino al pensionamento, quarant'anni dopo. Ma qui, come abbiamo più volte sottolineato, è all’opera una sorta di conflitto di interessi: la valutazione è fatta da chi è scelto proprio da chi verrà valutato, con la conseguente ovvia tendenza a un certo lassismo (per essere benevoli). Su questo punto, le proposte non sembrano incidere molto. Si dà un piccolo ruolo agli avvocati nelle valutazioni: cosa ottima ma di portata limitata. Si rende più complesso il meccanismo di valutazione – così come quello di nomina dei capi degli uffici – introducendo un’amplissima griglia di indicatori e aumentando un po’ i requisiti di anzianità. L’impatto sarà probabilmente modesto: la discrezionalità è alimentata e non contenuta dal numero degli indicatori. Probabilmente alla fine ne uscirà accresciuto solo il contenzioso. Se non si tocca il meccanismo di fondo – eliminando o comunque contenendo il conflitto di interessi – le cose difficilmente cambieranno.

Così, la discrezionalità del Csm – cioè la possibilità di scegliere a proprio piacimento chi promuovere e chi no – resterà immutata e quindi il Consiglio continuerà a essere oggetto di forti pressioni – esterne e interne al corpo - perché – e qui sta l’aspetto cruciale – il potere dei capi – specie degli uffici requirenti – è diventato col tempo molto, molto rilevante. Lo abbiamo visto: un’indagine – o anche un semplice “coinvolgimento” - può troncare o almeno congelare una brillante carriera politica. I politici lo hanno appreso e si comportano di conseguenza. Nulla del disegno di legge – a parte le esortazioni – induce a ritenere che le cose possano cambiare: a poco serviranno i “muri” fra toghe e politica. Forse solo un mutamento del “clima culturale” del Paese – con un declino della popolarità delle “manette facili” – potrebbe portare a mutamenti che circoscrivano i poteri della pubblica accusa, ma per ora deve ancora profilarsi all’orizzonte.