Spirano venti di guerra nelle università italiane. Niente che debba allarmare le questure, per ora: la stagione delle occupazioni è più avanti, fra ottobre e dicembre. Ad agosto, gli atenei sono deserti: al massimo, s’incontrano gli operai che imbiancano i bagni in vista di possiibili ispezioni. Gli accademici in rivolta sono altrove. I commissari delle abilitazioni sudano a gratis per chiudere la seconda tornata, oppressi dall’incubo della terza, che ricomincia il 4 agosto. I candidati alle stesse abilitazioni, invece, digitano furiosamente sui tasti dei portatili l’ennesimo pezzo di letteratura da concorso, tempestando di mail le redazioni delle riviste di fascia A perché glielo pubblichino. Alcuni cercano persino di aggiornarsi sotto l’ombrellone, compulsando libri comprati a loro spese. E tutti si chiedono che cosa abbiamo fatto per meritarci questo.
Per fortuna, il tam tam è partito in primavera, dal Politecnico di Torino: a settembre, l’anno accademico si aprirà con un inaudito sciopero degli esami. Le motivazioni possono sembrare nebulose, persino corporative, a chi lavorerebbe anche nelle miniere di sale, se fossero banditi appositi concorsi: recuperare anni di contributi perduti, dopo un blocco degli stipendi che dura da una vita. Ma è chiaro che si tratta solo del casus belli che potrebbe far scoppiare i Vespri siciliani, il Tumulto dei Ciompi, la Congiura dei Pazzi. L’accademia in rivolta, decimata dai tagli ai finanziamenti, dai pensionamenti e dal palese disprezzo dei politici, reclama che si torni a finanziare la ricerca, che si assumano i giovani, che si riveda tutto il carrozzone della valutazione.
La valutazione, già. Ricordo un’intervista a Edoardo Sanguineti, antidiluviana visto che non la ritrovo sul web, in cui il grande poeta e accademico comunista proponeva di burocratizzare la cultura. Non l’avesse mai detto. Fabio Mussi, ministro dell’Università nell’ultimo governo Prodi, lo prese in parola e s’inventò l’Anvur, Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca. «Un moloch che costa una fortuna allo Stato» e che «controlla tutto, interviene su tutto, ha potere di vita e di morte su corsi di studio, dipartimenti, dottorati»: scrive Walter Lapini, ordinario di Letteratura greca, sul «Secolo XIX» di mercoledì scorso. È così: dimentica solo lo ius primae noctis.
Constatato che ogni riforma dell’università pubblica ne ha smontato un pezzo, il collega conclude che, invece di pensare all’ennesima riforma della riforma, si dovrebbe avere il coraggio di «un’onesta marcia indietro». Ora, è vero, il riformismo compulsivo all’italiana induce alla nostalgia dell’ancien régime; non solo Renzi, ma tutta la sinistra italiana sono ormai generalmente odiati per questo, e si aspetta solo l’ultima ondata reazionaria che spazzi via tutto. Ma Lapini trascura che abolire le riforme, e anche l’Anvur, sarebbe solo l’ennesima riforma. Anch’io vorrei vedere smantellato U-gov, il sistema informatico per gestire gli atenei pubblici che qualsiasi azienda privata avrebbe già rispedito al mittente. Ma come farlo senza dover ricominciare da capo, con un’altra baracca?
E poi, confesso che mi è difficile persino immaginarla l’università di prima da cui ricominciare. Ricordo a malapena Consigli di facoltà che finivano all’alba, concorsi che duravano decenni, con commissari che avevano davvero lo ius primae noctis. E ricordo pure la battuta che correva fra noi, dannati della ricerca, durante il mio primo incarico all’Università della Calabria: non dite a mia madre che faccio il ricercatore universitario, lei crede che faccia il pianista in un bordello. Ma l’università di prima non c’è più, e forse non c’è mai stata. Oggi possiamo solo cambiare questa università pubblica, prima che muoia. Lotta dura senza paura, dunque. Ma che il grido di battaglia non sia solo «arridatece li sordi», bensì, anzitutto, «sburocratizziamo la cultura».
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