Ogni anno, ai primi di febbraio, per qualche giorno il nostro Paese sembra fermarsi, o almeno rallentare. Certo, è soprattutto un’illusione ottica, un temporaneo spostamento dell’attenzione dei media, e con essa della focalizzazione almeno parziale di una manciata di milioni di persone. Ma il Festival di Sanremo porta con sé la capacità – preziosa per alcuni, dannosa per altri – di spostarci metaforicamente in Riviera, per pensare ad altro e per parlare d’altro, almeno per un po’. Nella ormai lunga storia del Festival ci sono stati momenti di maggiore centralità e altri di riflusso; ma le edizioni recenti mostrano piuttosto bene il bisogno, anche contro alle attese, di mettere in pausa un presente spesso troppo complesso, e di ritrovarsi attorno alla stessa trasmissione pur nell’ipotetica abbondanza di alternative. Così, il Festival appena terminato ha consentito l’ormai consueta vacanza dalla stretta attualità, allontanandoci per un po’ dalle paure del coronavirus, dalle incertezze degli esteri, dalle eterne discussioni della politica, dai mille sensazionalismi di cui oggi è fatta l’informazione. E allora pausa, stop, facciamo un bel respiro.

L’edizione guidata e condotta da Amadeus, con l’affiancamento inevitabilmente (e fortunatamente) invasivo di Fiorello, ha voluto un afflato che fosse il più largo possibile, accatastando un gran numero di elementi. Alle ventiquattro canzoni in gara si sono aggiunte le innumerevoli conduttrici a supporto, i tanti attori e cantanti ospiti, i momenti comici e quelli a sfondo sociale. Dalla reunion dei Ricchi e Poveri all’aria di “Tosca” interpretata da Grigolo, da Sabrina Salerno a Rula Jebreal, da Massimo Ranieri ad Al Bano e Romina, e poi le canzoni di Tiziano Ferro, gli scherzi con Fiorello, i duetti della serata dedicata alle cover storiche, gli imprevisti imprevedibili (il crescendo delle esibizioni di Achille Lauro, la fuga dal palco di Bugo e l’orchestra che si ferma dopo la prima strofa di Morgan): le scalette sono state composte con un’idea di accumulo vorticoso e inclusivo, per dare almeno qualcosa a ogni tipologia di spettatore. Se questo Festival ha visto il trionfo dei talenti formatisi nella scuola della prima Radio Deejay, indubitabile bacino dell’immaginario nazionalpopolare italiano degli ultimi tre-quattro decenni, anche la progressione è stata radiofonica, con ritmi sostenuti e numeri che si susseguivano senza che ci fosse bisogno di fermarsi troppo a pensarci su. Tutto contribuisce e tutto scorre, formando “una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”, per citare un altro protagonista di quella stagione, Jovanotti, assente perché lontano. E il risultato è il coinvolgimento trasversale, un ascolto forte su tutte le fasce d’età, compreso – ed è parecchio importante – il pubblico più giovane. Il respiro di questo Sanremo, anche a seguito di una simile giustapposizione di “numeri” disparati, è stato poi un’apnea: alla lunga durata delle serate, arrivate spesso fino a notte fonda, si è aggiunto il moltiplicarsi dei discorsi e dei commenti, che hanno contaminato ogni anfratto del panorama mediale italiano, in modi indifferenti alla concorrenza e al medium, tra programmi tv, giornali, siti, social. Da una parte l’horror vacui, la paura della pausa e del silenzio, anch’essa tipica della radiofonia commerciale; e dall’altra lo spacchettamento di ogni modulo, la discussione infinita, l’intrecciarsi di ribalta e retroscena. Tutto finalizzato a costruire e rafforzare il successo della cerimonia, dando l’impressione dell’eccezionalità, lavorando sul dato di ascolto (in share) e imponendo un frame chiaro a osservatori e pubblico. C’è tanto, certo c’è troppo, ma in fondo avercene, per la tv, di cerimonie come questa, che pure in tempi di moltiplicazione dell’offerta e di frammentazione dei consumi raccolgono tante persone tutte insieme attorno a un evento. E aiutano tanti (nelle intenzioni, tutti) a riconoscersi parte di una stessa comunità.

Più di una volta, ancora, il respiro si è fatto affannoso. Già prima di cominciare, il passo del Festival è stato segnato da tante discussioni e polemiche, da errori e attacchi, da scuse affrettate e parziali rimedi; e il ritmo è rimasto molto sostenuto anche nei giorni dello show, tra azioni e reazioni. Il Sanremo basato sull’amicizia fraterna si è rivelato terreno di scontro, con i dissidi lasciati esplodere (e poi ricomposti sul palco e su Instagram) tra Tiziano Ferro e Fiorello, o con lo scoppiare a orologeria di una coppia in gara. E la questione del “passo indietro” è diventata praticamente un sottotesto dell’intero spettacolo, una delle poche linee narrative a dare senso all’accumulo, di continuo richiamata sul palco e in sala stampa. Con, ancora una volta, tutto e il contrario di tutto: momenti di reale consapevolezza e mosse dall’effetto fin troppo facile, considerazioni accorate e battute sbrigative, monologhi riusciti e altri molti meno, appelli fatti strizzando l’occhio al televoto aperto, semplificazioni e contraddizioni. Ma sarebbe inutile chiedere al Festival, e a questa edizione in particolare, una coerenza che non può avere: Sanremo è un evento onnivoro, che di queste polemiche si nutre trasformandole in materiale creativo e narrativo, che si gonfia di obiezioni e critiche che non fanno che sottolinearne la rilevanza; ed è un magma informe e contraddittorio, dove stanno insieme progressismo e conservazione, sfondamento dei limiti e posizioni retrive, e dove la forza sta semmai nella reciproca contaminazione, nel portare temi rilevanti, magari in modo semplificato o eccessivo, all’attenzione di tutti gli altri, di chi non è già convinto. Il monologo di Jebreal, le mise di Lauro, la presenza-assenza di De Filippi hanno fatto ben più dei boicottaggi.

Giunti alla fine della vacanza, forse con un sospiro, si ricomincia con la prosa della quotidianità. L’evento diventa subito memoria, pezzi da incastonare in un racconto dove qualcosa rimane, qualcosa scorre via, qualcosa magari si prepara già a una rivalutazione futura. Abbiamo fatto notte fonda davanti alla televisione, ci siamo stupiti e arrabbiati, abbiamo preso posizione, abbiamo guardato e ascoltato, abbiamo partecipato a un grande gioco condiviso. E va benissimo così. Sono passate settanta edizioni, e – consapevoli di esagerare, ma nemmeno troppo – possiamo dirlo: che Italia sarebbe senza Sanremo?