L’ultima omelia di Monsignor Romero. Lo scorso 1° dicembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 65/451, ha proclamato il 24 marzo «Giornata internazionale del diritto alla verità in relazione a gravi violazioni dei diritti umani e della dignità delle vittime». Colpiscono immediatamente due dati: da un lato la volontà da parte dell’organo assembleare dell’Onu di rafforzare il proprio calendario civile, rilanciando l’esigenza di trovare simboli universali e condivisi, oltre le barriere geopolitiche e religiose; dall’altro la scelta della data che, accogliendo la proposta del nuovo governo salvadoregno, richiama l’uccisione sull’altare dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero, il 24 marzo 1980. Una data che coincide, tra l’altro, con il Dia nacional de la memoria por la verdad y la justicia argentino (istituito nel 2002 in ricordo del golpe militare del 1976) e con la giornata che la Chiesa cattolica dedica alla memoria dei martiri. Anche se i media internazionali hanno manifestato una certa indifferenza nei confronti del provvedimento (compresi quelli italiani), la scelta di indire la giornata è tutt’altro che irrilevante e corona un percorso piuttosto articolato. Nell’ultimo semestre, infatti, l’Assemblea ha dato spazio crescente alle iniziative simboliche, in particolare quelle finalizzate a stimolare una pubblica riflessione sul complesso tema dell’universalità dei diritti umani. All’indomani della risoluzione, l’ambasciatore salvadoregno presso l’Onu, Carlos García, citando uno dei motti più noti legati alla figura di Romero («la palabra queda», ovvero «la parola resta») ha ribadito la necessità di aprire la strada, dopo anni di rimozioni e leggi di amnistia, alla ricostruzione della memoria storica per intraprendere un processo doloroso ma inevitabile per la piena affermazione dei diritti umani.
La scelta di Romero in tal senso è fortemente simbolica per un’articolata serie di ragioni. In primo luogo si tratta di un uomo che si è esposto dinamicamente e coraggiosamente, fino a perdere la propria vita, per unire le esigenze della riconciliazione politica con quelle della giustizia sociale, proprio nel momento in cui il suo paese stava scivolando pericolosamente nei gorghi della guerra civile. In secondo luogo si è trattato di una persona che ha saputo utilizzare l’arma della denuncia internazionale, togliendo il velo su violazioni e violenze e manifestando la propria fiducia in organismi multilaterali, quali la Commissione interamericana per i diritti umani, così come nelle reti ecclesiali, civili e universitarie internazionali. In terzo luogo, e qui sta forse il nodo più delicato, si tratta di un alto esponente delle istituzioni ecclesiastiche che non solo ha assunto un ruolo di supplenza valoriale in una fase di forte deficit delle istituzioni politiche (nazionali e, almeno in parte, internazionali), ma che implicitamente ha saputo testimoniare il ruolo riconciliatore, di vigilanza e denuncia che le Chiese possono svolgere in situazioni di crisi e di fronte all’escalation delle violenze. Anche se il linguaggio della risoluzione è tipicamente neutro, l’appello silenzioso a un impegno pacificatore da parte delle istituzioni religiose è quanto mai esplicito.
Odi religiosi hanno solcato buona parte dei conflitti che hanno marcato l’ultima stagione della guerra fredda (spesso interni alla stessa comunità cattolica, come ci ha segnato il caso latinoamericano) e, ancor più, hanno marcato a fuoco le cosiddette «nuove guerre» post-bipolari. Non bisogna dimenticare che il 24 marzo è stato proclamato dalla Chiesa cattolica giornata internazionale dei missionari martiri e quindi la memoria di Romero potrebbe contribuire a conciliare anche pantheon civile e religioso.
Infine c’è un quarto aspetto di Romero che a lungo è stato sottovalutato ma che forse stava particolarmente a cuore ai proponenti la mozione: la sua dimensione, oltre che di rappresentante della Chiesa di Roma, di hijo predilecto di un piccolo paese centroamericano, povero di risorse ma inserito in quella fascia periferica nei rapporti Nord-Sud che più ha pagato i processi di regionalizzazione della guerra fredda. Più importante di qualsiasi eventuale tentativo di speculazione politica sulla morte di Romero risuona quindi il senso di un richiamo al peso riconciliatore della memoria. Un tema che Funes aveva d’altronde già affrontato il 24 marzo 2010, spingendosi ben oltre le tradizionali posizioni dei partiti nazionali (compreso il proprio), fino a chiedere perdono a nome dello Stato salvadoregno non solo per la morte dell’arcivescovo, ma per le migliaia di famiglie colpite da ondate di violenza inaccettabile.
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