C’è un aspetto della crisi della sinistra che ha a che fare non tanto col suo statuto ideologico e il suo profilo storico, quanto con le conseguenze politiche del suo essere in crisi. È un aspetto legato alle conquiste della sinistra riformista del secolo scorso, conseguite con la mediazione della rappresentanza democratica, attraverso la revisione e l’adattamento degli assunti ideologici di partenza. Ma anche legato ai risultati positivi della Terza via e alla sua incompiutezza, ben simboleggiata dall’assenza, oggi, di una sua legacy culturale. È un aspetto connesso, insomma, con la funzione performante che la sinistra ha avuto nel modellare la democrazia liberale a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Forzando Hegel, ciò che (in sé) la sinistra ha sempre e quasi naturalmente incarnato – da prima di Marx, attraverso Marx, fin dopo Marx – è un insieme integrato di bisogni, valori e interessi alternativo a quello dominante. La rappresentazione politica della sua dimensione ideale dentro un perimetro statuale storicamente definito ha prodotto (per sé) un crescente protagonismo politico della sinistra. Un protagonismo che (per sé) si è sovente imposto come guida della metamorfosi liberaldemocratica degli Stati nazionali europei. Un protagonismo così duraturo da incidere (ancora per sé) nella costruzione di un’ipotesi di governo globale, attraverso la promozione di istituzioni sovranazionali.
La sinistra riformista, la sinistra per sé, ha trionfato nel secolo scorso grazie al proprio pragmatismo, che talora ha conservato e altre volte ha modificato l’ispirazione originaria. Piaccia o meno, le realizzazioni della sinistra per sé hanno così decisamente prevalso sulle promesse mancate della sinistra in sé. Trasformandone talvolta i presupposti teorici fino a guadagnarsi, in qualche occasione, l’accusa di travisamento degli stessi, se non periodicamente la calunnia del tradimento.
Ciò è accaduto soprattutto nella variante marxista della sinistra europea, che è poi la sua dominante storica. Dalla seconda metà del XIX secolo, il movimento operaio è stato il più poderoso motore di democratizzazione degli Stati nazionali europei. La rivendicazione, in sé, del primato morale della classe operaia si è trasformata, per sé, in una potente istanza di rappresentanza sociale e politica. Ma lungi dal sovvertire l’ordine costituito, quell’istanza di rappresentanza ha accettato il gioco democratico, lo ha infuso del proprio in sé e se n’è fatto guida.
[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 5/19, pp. 795-803, è acquistabile qui]
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