Roma ha rappresentato il collasso più eclatante del modello Pd. Parliamo di fatti avvenuti nel 2014 e nel 2015, ma che ancora oggi si riverberano nella politica romana e in quella nazionale. Si è trattato di un’esplosione – e non di un’erosione – che, forse, descrive qualcosa che riguarda l’attuale decadenza cognitiva e organizzativa del Pd nazionale. Una storia per certi versi anticipatrice. Il caso di un partito locale che assume una dimensione nazionale:

1) perché associato – più per via mediatica che giudiziaria – a un caso di corruzione di portata non solo locale (il cosiddetto "Mondo di mezzo", una vicenda che forse riguardava in primis le pagine oscure della storia della Repubblica, di cui Massimo Carminati, uno degli imputati, fu attore e testimone);

2) perché lo storico intreccio fra classe dirigente del Pd locale e classe dirigente nazionale, fin dalle origini di questo partito, fa di Roma un fatto politicamente nazionale (almeno per quello che riguarda la storia del Pd);

3) perché, e qui interviene soprattutto il giudizio di chi scrive, questa vicenda locale rappresenta un caso di scuola rispetto alla natura del Pd: un partito introflesso dentro la dimensione istituzionale e di governo, che ciclicamente patisce l’assenza di un rapporto maturo e moderno con la società.

Perché partire da un caso locale per intervenire nel dibattito sulla crisi del Partito democratico a livello nazionale? Perché Roma è l’esempio di una crisi particolarmente grave che ha specificità non ripetibili altrove, e che però, proprio nella sua gravità e specificità, fa emergere in modo plastico alcuni problemi strutturali che lo stesso Partito democratico mostra in una dimensione generale. Considerazioni, queste, che nascono dalla ricerca (ad ora in corso) Il volo del calabrone. Partiti e società a Roma, che ricostruisce la storia del Pd romano dalla sua nascita, nel 2007, a oggi.

Il Partito democratico nazionale, che nasce dalla fusione della Margherita e dei Democratici di sinistra, è molto diverso da quello che si struttura a Roma nella stessa fase. Il primo emerge come novità del sistema politico italiano (che nel 2008, con oltre 14 milioni di voti, perderà le elezioni), il secondo sta per scontrarsi con la fine del cosiddetto "Modello Roma". Dal 1993, con l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco, Francesco Rutelli e Walter Veltroni – e buona parte delle classi dirigenti che poi daranno vita al Pd, locale e nazionale (da Goffredo Bettini a Paolo Gentiloni) – avevano guidato la capitale inaugurando una stagione di governo che si radicherà nella città, attraverso la definizione e il consolidamento del "Modello Roma": una struttura di relazioni e interessi tra attori del sistema socio-economico romano, capace di produrre una governance non conflittuale delle politiche urbane locali e un certo grado di crescita. Modello che entrerà in crisi proprio nel 2008 e la cui crisi si innesterà sulla fase di avvio e organizzazione del Pd a Roma, caratterizzandone la genesi.

Nel 2007 – sulla scorta dell’esperienza delle Giunte Rutelli e Veltroni, che si susseguono dal 1993, e de L’Ulivo (a partire dal 1995) – i gruppi dirigenti romani dei Ds e della Margherita approdano alla dimensione Pd già forti di un rapporto strutturato, che – così come hanno cogestito il potere locale e le relazioni con la società e gli attori economici locali – li porta a cogestire il nuovo soggetto politico. Nel 2008, l’elezione di Gianni Alemanno a sindaco di Roma pone fine al controllo delle istituzioni locali che per oltre un quindicennio era stato appannaggio del centrosinistra.

Il risultato della sconfitta elettorale è la crisi del patto fra i gruppi dirigenti che avevano fondato il Partito democratico. In sostanza, in assenza della funzione federatrice del controllo delle risorse di governo, il Pd mostrerà di non essere in grado di gestire le relazioni fra le componenti interne: una sindacatura Pd consente alle aree politiche di ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza, con il sindaco a fare da mediatore e garante dei diversi sistemi di interessi; un Pd fuori dalle istituzioni mostra enorme fatica nel costruire un’alternativa plausibile al governo della città.

Si arriverà così nel 2013 a un successo in termini elettorali – a fronte di una perdita consistente di voti di lista al Pd in termini assoluti (2008: 521.880; 2013: 267.205) – con l’elezione di Ignazio Marino; ma un insuccesso di proporzioni inaudite in termini di tenuta del patto federativo Pd. Un sindaco "anomalo" – nel bene e nel male, questione che andrebbe ulteriormente approfondita – che non trasforma le istituzioni in uno strumento capace di mediare fra i diversi interessi delle "macchine Pd" (doveroso il plurale) e delle reti di relazioni che esse rappresentano (siano esse virtuose o meno, non ci interessa: ci interessa la meccanica). Un’impresa resa ancor più complessa dalle risorse pubbliche che nel 2013 appaiono ben più limitate di quelle a disposizione dei sindaci dei due decenni precedenti.

La storia è nota: il "Mondo di mezzo" sarà il detonatore di una crisi interna che non dipende tanto dallo scandalo in sé, ma dall’incapacità del Pd di sopravvivere ai suoi conflitti attorno alla gestione delle (scarse) risorse pubbliche

La storia è nota: il "Mondo di mezzo" sarà il detonatore di una crisi interna che non dipende tanto dallo scandalo in sé, ma dall’incapacità del Pd di sopravvivere ai suoi conflitti attorno alla gestione delle (scarse) risorse pubbliche. La famigerata vicenda del "notaio" – un gruppo di consiglieri comunali che sfiducia il Sindaco del proprio partito – verrà presentata come un tema di incompatibilità politica (vero), ma la vicenda è assai più complessa, e ha a che fare anche con l’incapacità del Pd di venire a sintesi sulle partite di sviluppo della Capitale. Senza una pax simil-veltroniana a guidare il governo della città, non esiste una modalità attraverso la quale il partito locale riesce a darsi strumenti di indirizzo politico, rendendo lo scontro brutale e privo di camere di compensazione. Viene a mancare, così, dialogo interno e dialogo con la società, in una forma estrema: il terremoto che ne consegue desertifica la già fragile struttura organizzativa del Pd.

La vicenda, qui narrata in modo approssimativo, suggerisce un dato, tanto banale quanto scontato, che vale la pena discutere: un partito senza linea e senza organizzazione non può sopravvivere alle intemperie dell’opposizione rischiando di arrivare agli appuntamenti di governo sempre più fragile. Ristabilire una nuova "pax" è un fatto complesso che richiede tempo e che non può essere affidato ai soli gruppi dirigenti, o solo a un leader taumaturgo, pena una progressiva consunzione (quella del caso romano, arrivata attraverso uno shock che ha anticipato i tempi di necrosi della macchina politica).

Da tempo la letteratura sui partiti ne descrive la deriva "stato-centrica", quella dalla quale il Pd avrebbe bisogno di affrancarsi. Piero Ignazi ha descritto i partiti come quasi-istituzioni che hanno acquisito nuova forza e nuovi mezzi – grazie al loro accesso privilegiato all’uso delle risorse pubbliche – al tramonto della loro capacità di stare dentro la società, perdendo così in legittimità (semplificando ulteriormente: guadagnare controllo perdendo in fiducia, quella loro concessa dai cittadini).

In una errata concezione di cosa fosse un’organizzazione moderna, il Pd viene strutturato, fin dal dibattito che ne ha preceduto la nascita, come una infrastruttura che si concentra soprattutto sulla "produzione" di leadership di governo (legittimata tramite il plebiscito delle primarie), invece che:

a) sulla creazione di una relazione innovativa, articolata e significativa con i propri attivisti;

b) sulla produzione di una cultura condivisa, ovvero di una risorsa immateriale della quale le organizzazioni, anche quelle non politiche, necessitano al fine di garantirsi memoria e continuità di azione (una funzione che è stata demandata al leader temporaneamente in carica e a piccoli think tank produttori di ideologie fai-da-te, spesso usa e getta).

In una errata concezione di cosa fosse un’organizzazione moderna, il Pd viene strutturato, fin dal dibattito che ne ha preceduto la nascita, come una infrastruttura che si concentra soprattutto sulla "produzione" di leadership di governo

Il risultato non è stato la creazione di un’organizzazione in linea con i tempi, ma un ulteriore passo verso la dimensione stato-centrica del Pd. Il rapporto con la società tramite i partiti è stato demandato: alle leadership e alle loro competenze comunicative da un lato, alla leadership di governo e all’azione istituzionale dall’altro. Il Pd è entrato così nel decennio dei populismi rinunciando a una relazione permanente con la società (o con alcuni segmenti di essa), se non quella della sua faccia mediatica.

Un paradosso, pensando che persino le nuove organizzazioni di matrice populista – Movimento 5 Stelle in testa – hanno ragionato a lungo sulle forme nuove della partecipazione e dell’inclusione dei cittadini nel dibattito pubblico (che fosse pura retorica o fatto organizzativo reale, non è qui tema di approfondimento). Così, tanto più debole è il rapporto con la società, tanto più forte è la necessità di rafforzare la dimensione stato-centrica. Per di più, in assenza di finanziamento pubblico ai partiti, la presenza dentro le "stanze dei bottoni" appare ancora più esiziale per garantire continuità reddituale a uomini e donne della macchina organizzativa, per quanto essa possa essere ridotta al minimo sindacale.

Il caso romano è stato un campanello di allarme nel decennio appena trascorso, dal quale non si è tratto un insegnamento efficace. A questo punto il Pd deve decidere se dotarsi o meno di strumenti reali per costruire cultura politica e antenne nella società, abbandonando il modello indefinito nato nel 2007.

Si può anche scegliere altrimenti, puntando su un ulteriore ciclo di "sopravvivenza": in fondo, tirare a campare invece che tirare le cuoia è strumento da sempre lecito in questo Paese.