Avanza inesorabilmente nel nostro Paese la categoria politica del ripensamento.
Che si tratti della legge sulla legittima difesa, oppure soltanto della squalifica del calciatore Muntari, prima comminata – per aver abbandonato il terreno di gioco dopo le sue vane rimostranze all’arbitro per gli insulti razzisti subìti – e poi revocata, la marcia indietro sembra la direzione più spedita verso cui procedere.
Se si volesse entrare nel merito, si potrebbe osservare che la legge sulla legittima difesa esistente è una delle poche decisioni politiche apprezzabili dell’accoppiata Berlusconi-Castelli e che la squalifica a Muntari era dovuta, perché il calciatore di colore aveva consapevolmente commesso un illecito, tanto da non voler nemmeno presentare il reclamo per la sua squalifica; addirittura si potrebbe affermare che proprio la sanzione attribuiva forza al suo gesto: giusto e coraggioso proprio perché incisivo e proibito.
Ma ciò che interessa segnalare è il significato del ripensamento, che ci dice chiaramente della debolezza dei nostri decisori, tanto della classe politica quanto del giudice sportivo, incerti fino a diventare disarmati e disarmanti davanti al minimo stormir di fronde.
Per carità, si è soliti dire correttamente che soltanto gli stupidi non cambiano mai idea; ma non è certo un riflessivo meditare sulle conseguenze delle scelte compiute e delle azioni intraprese a indicare la strada del ritorno al «ripensatore»; bensì il crescente timore per un’opinione pubblica sempre più intesa come «posta in gioco» da conquistare per raggiungere il consenso – come ci ricorda spesso Giorgio Grossi – che sollecita il decisore ad acquattarsi disciplinatamente dietro ogni senso comune emergente.
Ancora, si potrebbe obiettare che saper comprendere e rispettare l’opinione pubblica è il sale della democrazia. Un’indubbia verità da coltivare e perseguire, se l’opinione pubblica fosse vista come luogo di dibattito largo e approfondito atto a favorire l’inclusione sociale e a invogliare nuove forme di partecipazione. Ma, invece, quello a cui assistiamo ormai quotidianamente è la propensione a cavalcare l’emotività del momento, casomai avallata da qualche titolo di giornale, da frettolosi sondaggi o ancora peggio dall’immediata puntualità delle contumelie in rete, da cui i nostri decisori sembrano ogni giorno più ammaliati e che si affrettano a inseguire nella speranza – che ormai una serie di dati infinita ci mostra sempre più come vana – di conquistare simpatie e casomai voti.
Ci ripenso dunque sono, dunque esisto, e soprattutto mostro di stare attento alle sensibilità della collettività!
Invece appare chiaro come questo comportamento evidenzi debolezza e incertezza. Ma soprattutto trasformi il confronto con i cittadini e gli elettori in una gara per l’acquisizione di un’audience larga e consenziente, raggiungendo però il risultato opposto: progressivamente un cittadino, reso esigente dalle tante potenziali opportunità d’intervenire nello spazio pubblico, si trasforma in un osservatore distratto e sfiduciato.
Non sembra proprio questa la strada da intraprendere per il coinvolgimento della collettività da più parti auspicato – per recuperare un pericoloso scetticismo serpeggiante nei confronti di ogni processo decisionale caratterizzante la vita pubblica italiana – e più facilmente perseguibile per l’immediatezza con cui si possono convocare dati, opinioni e sensazioni dei cittadini attraverso la rete.
Come ogni ricchezza, anche questa delle tante informazioni a nostra disposizione potrà essere utile soltanto nella misura in cui tale capitale potenziale sarà impiegato per rafforzare con attenzione un discorso pubblico che sappia trovare luoghi e forme per diventare largo e riflessivo. Altrimenti sarà sprecata in investimenti a breve, che potranno segnare un punto a favore di questo o quel contendente, ma non faranno avanzare di un centimetro un vero dibattito, consumandosi in una somma sconclusionata di tanti soundbite che sta trasformando la comunicazione politica in una Babele di grida e offese sempre più sterili e inascoltate.
Il web non va assecondato per l’incessante velocità con cui fa viaggiare ogni informazione. Non è il tempo la categoria decisiva. Bensì lo spazio, quello spazio largo che l’ambiente digitale ci apre davanti e che può diventare realmente condiviso, in modo da includere posizioni e ragioni dei tanti, dai quali i decisori possono poi trarre le opportune sintesi.
È questa la strada per un'augurabile orizzontalità comunicativa maggiormente democratica. Al contrario, farsi imporre i processi dalla dittatura del tempo immediato porta soltanto a un’apparente vicinanza fra rappresentanti e rappresentati, ma a una loro effettiva, progressiva quanto inesorabile distanza.
Riproduzione riservata