In Italia si torna a parlare di università. Non è difficile capire perché, con il cambio di ministro che c’è stato. E’ un buon segno. Ma non sarebbe certo male se riuscissimo a migliorare anche la qualità della discussione, che oggi appare ancora dominata da facili slogan: basterebbe davvero abolire il valore legale dei titoli di studio per risolvere tutti i problemi? Forse si possono proporre alcuni elementi di un’agenda un po’ più completa per la discussione. Proviamo a farlo mettendo in luce cinque punti almeno (per cominciare).
Innanzitutto, all’Italia servono molti più laureati. Viaggiamo nella parte bassa della classifica dell’Unione europea a 27, e rischiamo nei prossimi anni di scivolare ancora più basso. Un elevato numero di laureati, soprattutto in discipline scientifiche, può favorire il rilancio competitivo del Paese. Le imprese che esistono hanno bisogno delle nuove conoscenze tecniche e creative, di cui sono portatori giovani ad alta qualifica; e tutti noi abbiamo bisogno che una parte di questi giovani crei nuove imprese, per mettere a profitto quelle conoscenze e creare nuovo lavoro. E’ un tassello di un possibile rilancio; non l’unico, naturalmente. Ma rassegnarsi a mantenere costante, o addirittura a ridurre il numero di laureati, in base all’attuale richiesta delle imprese (in un momento di grave crisi) certamente aiuta il declino.
Al secondo posto delle nostre priorità viene il fatto che laurearsi deve poter restare uno dei più importanti “ascensori sociali” in un Paese dalla mobilità quasi bloccata, che di ascensori ne ha pochissimi e spesso malfunzionanti. Il rettore dell’Università di Foggia faceva recentemente presente, in un articolo su “il manifesto”, che nella sua sede l’82% dei laureati sono figli di genitori non laureati; il 38% di genitori privi di titolo di studio. Non è una colpa. Un tempo si sarebbe detto che è un merito. Spinge ad avere enorme attenzione, ad esempio, al tema delle tasse studentesche nel quadro dei bilanci degli atenei.
In terzo luogo, il potenziamento del sistema dell’università è un problema nazionale, e va affrontato in un’ottica nazionale. L’autonomia e la responsabilità delle sedi sono elementi preziosi del sistema. Ma la logica dell’“ognuno per sé” è altra cosa. Emergono sempre più evidenti le proposte di quanti disegnano un sistema con pochi atenei di serie A (con un finanziamento più cospicuo e una intensa attività di ricerca), collocati nelle grandi città più ricche, a diretto contatto con le imprese oggi più forti e con i pochi soggetti che hanno ancora disponibilità finanziarie, verso i quali convogliare i giovani più brillanti. E un più elevato numero (da ridurre nel tempo per puro esaurimento di risorse) di atenei di serie B, destinati a svolgere solo didattica di base, senza disponibilità per la ricerca, per fornire ai primi laureati triennali da specializzare. Se è certo che questo gioverebbe ad alcune sedi, è assai probabile che sarebbe una pessima scelta per l’interesse nazionale.
Viene poi la questione del merito. Premiare il merito è una cosa seria, indispensabile. Ma è assai difficile e va fatto con grande attenzione. Finora in Italia si è invece fatto malissimo. L’eredità Gelmini contiene indicatori discutibili, taluni contrari al buon senso (come la velocità degli studenti nel superare gli esami, evidente premio a valutazioni di favore più che a una buona organizzazione); di criteri definiti dopo il periodo di valutazione, in modo da avere già i numeri per sapere chi premiare. Di indicatori che misurano valori assoluti, e non il vero “merito”: quanto hai ottenuto, con le tue scelte, in base alla tua posizione di partenza e alle risorse disponibili: si pensi solo – per riflettere sulla “virtù” – che nel 2010 il finanziamento pubblico per studente variava da 2200 a 6500 euro, nelle diverse università italiane. Soprattutto, di un meccanismo che non mira a produrre comportamenti più virtuosi da parte di tutti – per migliorare il sistema nazionale dell’istruzione superiore – ma a motivare perché si spostano risorse date (meglio: in riduzione) dagli uni agli altri.
Veniamo ora all'ultimo punto. L’università cammina sulle intelligenze e le capacità dei più giovani, e sulla loro interazione virtuosa con i più anziani. In molte sedi italiane la realtà è un’altra: prepensionamenti massici e contemporaneamente chiusura degli ingressi. Come se davvero assegni di ricerca o posti da ricercatore (o da associato, come nella recentissima, assai controversa decisione) fossero sprechi che non ci dobbiamo più permettere.
Un tema certamente assai complesso tecnicamente, ma con una valenza politica straordinaria. Non difficilissima da comprendere, e sulla quale vale la pena esercitarsi, proprio in un momento di risorse pubbliche scarsissime.
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