Questo articolo fa parte dello speciale Partito democratico
Le elezioni del 25 settembre sono state uno dei risultati più drammatici per il centrosinistra italiano, che come coalizione non risulta pervenuto. Anzi, il Pd, che è o dovrebbe essere parte fondamentale di una coalizione alternativa, pur non avendo perduto voti in percentuale a differenza di Lega, Forza Italia e 5 Stelle è considerato il primo perdente. Perdente addirittura in partenza, perché è stata assente la sua capacità politica di costruire alleanze che possono vincere. Ma si può costituire un’alleanza, una coalizione, senza una precisa ed evidente linea politica da parte del partito che dovrebbe esserne il promotore? E il Pd è in grado, così come è strutturato, di esprimere una definita linea politica?
Si parta dal fatto che il partito maggiore di opposizione oggi è il Partito democratico. Ci sono anche altre forze importanti di opposizione, ma solo il Pd ha una struttura di partito in termini di presenza territoriale, procedure e complessità organizzativa. Ma è possibile riformare un partito senza modificarne la sua organizzazione interna? I suoi aspetti organizzativi e organigrammi che influiscono sulla sua politica?
Il partito è organizzazione. Organizzazione di interessi ed elaborazione di politiche. Ma è anche organizzazione tout court. Organizzazione di persone, di pratiche e risorse. Come si decide? Chi decide cosa? Chi agisce? La mia tesi di fondo è che una riforma o rifondazione del Partito democratico e della sua piattaforma valoriale e politica non è possibile – sebben non sufficiente – se non si pensa prima in maniera profonda e sistemica a una riorganizzazione del Pd. I contenuti sono e saranno influenzati e limitati dalla sua forma organizzativa.
Anche se rischia di essere tedioso citare lo statuto del Pd è necessario per sollevare alcune questioni critiche. Mi riferisco allo statuto modificato nel settembre del 2021. Nello statuto si delineano gli organismi fondamentali: il segretario/a (anche se donna non lo è mai stata), la sua segreteria, la Direzione nazionale e l’Assemblea nazionale. E anche i compiti di tali organismi e come vengono nominati e composti. La composizione dell’Assemblea – articolo 6 commi 1 e 2 – parte da 600 membri eletti e legati alle candidature dei segretari al congresso (da farsi ogni quattro anni). Ma l’Assemblea non si ferma a 600 perché lo statuto aggiunge:
"I segretari fondatori del Pd, gli ex segretari nazionali del Pd iscritti, gli ex Presidenti del Consiglio iscritti, i segretari regionali, i segretari provinciali, i segretari delle federazioni all’estero, delle città metropolitane e regionali, la Portavoce della Conferenza nazionale delle donne, i coordinatori Pd delle ripartizioni estero, il segretario dei Giovani democratici; cento tra deputati, senatori ed europarlamentari aderenti al partito indicate dai rispettivi Gruppi; i sindaci delle città metropolitane, dei comuni capoluoghi di provincia e di regione e i presidenti di regione iscritti ed in attualità di mandato.”
Ecco che l’Assemblea, dunque, può raggiungere dimensione ciclopiche: oggi è sopra il migliaio di membri. Si pensi che i due rami del Parlamento italiano – anche grazie al voto del Pd – oggi in tutto hanno 600 fra senatori e deputati. L’Assemblea, almeno da statuto, è importante perché dà "indirizzo della politica nazionale del Partito" (art. 6, comma 2). La Direzione nazionale è definita come organo di esecuzione degli indirizzi dell’Assemblea nazione ed è organo d’indirizzo politico (art 11. comma 1). È composta da 124 membri eletti (64 da Assemblea nazionale) e 60 dai livelli regionali (art. 11 comma 2). Ma la Direzione non è di "solo" 124 membri, ci son un’altra trentina di membri di diritto (art. 11 comma 3). Quindi la Direzione nazionale ha almeno 150 membri e dovrebbe esse convocata una volta ogni due mesi (art. 11, comma 4). La segreteria è l’organo collegiale e "ha funzioni esecutive" (art.10), può essere composta da un minimo di 12 a un massimo di 20 membri.
Dunque, un’assemblea nazionale di più di mille membri può veramente discutere ed elaborare idee o rischia di essere solo palcoscenico che rappresenti la pluralità di identità del Pd? Ha un ruolo di indirizzo, un ruolo di rappresentanza o – nel peggior caso – di coreografica testimonianza? Una Direzione nazionale di più di 150 membri non può avere un ruolo di indirizzo politico ed esecuzione. Come fanno 150 persone ad indirizzare un partito? Come fanno ad incontrarsi ogni due mesi come da statuto?
Il Partito democratico sembra aver seguito una logica interna di rappresentare tutti per far posto a tutti e non scontentare nessuno. Ma dietro al mantra "la differenza è una ricchezza" si celano problemi strutturali
Il Partito democratico, con organi organizzativi e decisionali elefantiaci, sembra aver seguito una logica interna di rappresentare tutti per far posto a tutti e non scontentare nessuno. Ma dietro al mantra "la differenza è una ricchezza" si celano problemi strutturali. Per non perdere questa presunta ricchezza si fa posto pro-quota a ciascuna componente o corrente che dir si voglia, negli organi dirigenti, a partire dai circoli che poi, a valanga, trasmettono numeri e componenti negli organismi provinciali, regionali e infine nazionali. Può anche sembrare questo, seppur imperfetto, un metodo democratico, se non fosse che, in realtà, il percorso non è dal basso verso l’alto, ma viceversa, perché sono i capi corrente nazionali che tengono le fila di questa organizzazione e che, sostanzialmente, si perpetua in una progressiva ossificazione.
Questa prassi ricorda quei Paesi post-conflitto che scelgono una divisone dei poteri che rappresenti qualsiasi potenziale gruppo di ribelli, regimi che sovente arrivano a un immobilismo sulle scelte politiche e sulle riforme necessarie perché altrimenti potrebbe insorgere una guerra civile. Ma poi la guerra civile ritorna proprio per il loro immobilismo. Scegliere di non gestire i conflitti interni e le proprie contraddizioni attraverso l’istituzionalizzazione dell’ambiguità – grazie a procedure organizzative arzigogolate – tende solo ad accentuare l’ineluttabilità del conflitto e un violento sfibramento dell’organizzazione stessa. I numeri enormi degli organi centrali e le loro relative dinamiche rischiano di portare a effetti nefasti non solo per la produzione di idee e posizionamenti politici, ma anche per la selezione della classe dirigente. Il rischio è di mandare via e non attrarre intelligenze ed energie che sono refrattarie a procedure definite da complicate liturgie che si esplicano entro perimetri e percorsi rigidi. Che le persone indotte ad attraversare procedure e percorsi estenuanti le si prendano per stanchezza o per i fondelli, il risultato è lo stesso: in entrambi i casi il Pd ci perde. Dunque, l’organizzazione non solo influisce sui contenuti ma anche su chi vuole far parte del partito stesso.
Il Partito democratico deve pensare a come gestire e organizzare il proprio conflitto interno: non deve essere timido e temere che questo conflitto possa fare male al Pd stesso. Finora, tuttavia, ha fatto l’opposto e ha creato e mantenuto un’organizzazione complicata e ciclopica dove tutti appaiano rappresentati ma dove è quasi impossibile produrre decisioni senza ambiguità. Se l’organizzazione è troppo complessa ed elefantiaca il conflitto fra tesi e politiche diverse non è possibile in maniera trasparente e costruttiva. Le scelte, quelle importanti, verranno prese dunque da pochi che per qualche ragione – non cristallina e di dubbia legittimità – contano. Il Pd non può più pendolare fra unanimità di facciata e situazioni emergenziali: le procedure decisionali e gli aspetti organizzativi del Pd – chi e come discute, chi e come decide, chi e come agire – devono essere ridiscussi e semplificati.
Il Pd non può più pendolare fra unanimità di facciata e situazioni emergenziali: le procedure decisionali e gli aspetti organizzativi del Pd – chi e come discute, chi e come decide, chi e come agire – devono essere ridiscussi e semplificati
Credo che per modificare il modo di fare politica occorra anche ripensare la dimensione degli organi rappresentativi, la loro composizione e, ad esempio, fondare un centro studi del Partito democratico per migliorare il chi e come si discute nel Pd. Le idee di un partito e le sfide che deve affrontare hanno bisogno di un’infrastruttura organizzativa per lo studio e la creazione di proposte. E per formare una classe dirigente. Non si può delegare totalmente la produzione di conoscenze e di politiche da intraprendere a think tank esterni (nel miglior dei casi). Sono esistite nella sinistra e nel Pd esperienze fruttuose su alcune tematiche nel creare analisi e proposte, ma sempre grazie all’impegno e alla generosità di alcuni individui, anziché organizzare strutturalmente risorse, metodi e diffusione delle analisi e proposte.
Suggerisco di ripensare criticamente alle "primarie", la procedura che apparve come grande soluzione ai problemi decisionali del Pd ed è ancora onnipresente nello statuto del Pd. Primarie che dovrebbero essere usate per decidere l’individuazione a candidato presidente del consiglio (art. 5, comma 3), la seconda fase della candidatura segretario nazionale (art. 12, comma 2), i candidati alla carica di sindaco e presidente di Regione (art. 24) e la selezione di candidature per le Assemblea rappresentative (art. 25). Le primarie non possono essere la scorciatoia organizzativa per risolvere difficoltà decisionali e i possibili conflitti di chi e come si decide. Segreteria e Direzione nazionale ridimensionate – e in coordinamento con segreterie regionali – dovrebbero discutere, decidere ed agire. Una Segreteria che può avere fra 12-20 membri (sempre, comunque, troppi) non deve rappresentare solo le anime del Pd, ma avere le migliori intelligenze e affermarsi per le proprie idee e non per la loro appartenenza a una certa cordata. Non si fanno le politiche attraverso le primarie ma attraverso lo studio, la discussione e il coraggio delle scelte di una Segreteria. È necessaria una Segreteria che svolga il ruolo di "governo ombra" dove esperti – con un supporto adatto – contrastino le proposte di un governo di destra e formulino chiare alternative su questioni centrali, dalle politiche economiche alla politica estera.
Suggerisco che il ruolo dei circoli territoriali debba ritornare il perno del Partito democratico del chi e come agire. Bisogna ripensare al ruolo dei circoli locali Pd, supportarli organizzativamente ma anche con materiali prodotti dal centro studi e grazie a un confronto sistematico e più intenso con la Segreteria ma anche la Direzione ridimensionata del Pd. I circoli come luoghi di palestra politica, riprendendo l’immagine di Fabrizio Barca e suoi colleghi.
Solo una riorganizzazione che vada dagli organi nazionali – Direzione e Assembla nazionale – passando per la creazione (e finanziamento) di un centro studi che crei proposte per riformare la società italiana e il rilancio dell’attivismo dei circoli territoriali può far iniziare un percorso di riforma di un Partito democratico. Il Pd ha istituzionalizzato la sua ambiguità per non affrontare i propri conflitti interni ma così rischia anche di non poter gestire i conflitti del Paese costringendo non solo sé stesso a una politica di sussistenza, ma l’intero sistema politico italiano a una perenne zoppia ed egemonia della destra.
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