Avendo centrato con enormi sacrifici l’obiettivo di uscire dalla procedura correttiva del Patto di stabilità, l’Italia sta cercando il via libera europeo, nel prossimo Consiglio di fine giugno, ad alcune misure di rilancio dell’economia. Bene, benissimo. Ma per ottenere questo risultato sono necessarie tre condizioni: un forte e costante impegno politico, una salda rete di alleanze e infine delle proposte tecniche coerenti con la precedente evoluzione delle normative comunitarie, ma allo stesso tempo capaci di mutarne l’orientamento. Senza una di queste condizioni, l’impresa sarà destinata a fallire.

Sul primo punto il governo Letta si sta muovendo con qualche decisione. La questione politica è fondamentale: se l’Europa non riesce a rendere più ragionevole la sua austerità, e a contemperarla con misure per la crescita (che pure proclama indispensabili nella sua strategia 2020), i rischi di un progressivo scollamento delle istituzioni rispetto alle società europee, e di un diffondersi di sentimenti nazionalistici, autarchici, ribellistici, è palese. Non giovano certamente però, nel nostro dibattito politico, gli inaffidabili stop and go di chi, dopo aver passivamente subito impostazioni ultra-rigoriste di politica economica, oggi invita a improbabili bracci di ferro con la Merkel. Siamo abituati a questa torsione dei temi internazionali per ottenere un facile consenso interno, ma ciò non aiuta l’Italia nel policy-making europeo.

Sul secondo punto, le tradizionali alleanze del nostro Paese vanno aggiornate. Non si tratta soltanto, infatti, di rafforzare un fronte meridionale con la Spagna, con cui condividiamo alcune difficoltà e obiettivi, o di stabilire concrete linee d’azione comune con la Francia: Paesi come la Polonia giocano un ruolo crescente su scala comunitaria ed esprimono ormai una linea politica pienamente europeista, dopo gli sbandamenti del passato. È necessario stringere alleanze graduate per temi e relative posizioni (euro/non euro; braccio correttivo/preventivo del Patto). Allo stesso tempo, il Parlamento europeo – i cui lavori seguiamo distrattamente – ha acquisito importanti poteri di codecisione, e al suo interno il rigido confronto tra Paesi si stempera un po’ nelle appartenenze di schieramento, aprendo possibilità di dialogo anche con deputati delle realtà nazionali più rigoriste. Un’azione in questo senso dei residui nostri partiti nelle residue famiglie politiche europee sarebbe utile.

Infine, gli aspetti tecnici. La tetraggine della Dg Ecofin e dei suoi ispiratori tedeschi (ma anche olandesi, austriaci, scandinavi) fa sì che l’obiettivo di una, anche parziale, golden rule (cioè l’esclusione di alcune tipologie di investimenti pubblici dal calcolo del deficit) sia ancora lontanissima dal concretizzarsi; nonostante siano sempre più palesi (e oggi certificati anche dal Fondo monetario internazionale) i devastanti effetti economici della attuali regole. Si è infatti aperto solo un piccolissimo varco (per i Paesi nel “braccio preventivo” del Patto di stabilità, tra cui l’Italia, ma non per Francia e Spagna) per investimenti orientati alla crescita e “certificati in base a processi di selezione basati su stringenti regole europee”: grandi infrastrutture europee e fondi strutturali. Non serve più di tanto agitare varie richieste di esclusione, su cui il percorso sarebbe ancor più in salita. Conviene concentrare invece il fuoco sulla necessità di portare fuori dal calcolo del deficit l’intero ammontare del cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali, i quali aiutano la crescita e si concentrano dove la disoccupazione è maggiore, ma aiutano anche le nostre regioni (e i Paesi europei) più ricchi: sia perché agiscono anche lì, sia perché con la crescita nelle aree deboli attivano una forte domanda di importazioni.