Negli ultimi anni la parola più usata tra chi si occupa di città sembra essere diventata «rigenerazione». Ovunque si ricorre alle presunte doti del «rigenerare» per ritornare a costruire, nella speranza di potersi risollevare economicamente.
Un po’ come fece il geniale Amintore Fanfani, che nel ’48, da ministro del Lavoro, mise a punto un piano per risolvere i due più drammatici problemi post-bellici: la penuria di case e l’abbondanza di disoccupati. Un piano, il suo, che dimostrò come l’intervento pubblico inneschi e regoli l’imprenditoria privata in forma singola o cooperativa.
Ma non siamo nel Dopoguerra. La Città storica è morta. È diventata un popoloso deserto. La si cita sempre meno e le poche volte che lo si fa si preferisce parlare di «centro», un termine vecchio e sbagliato. Le leggi aggiornate o rifatte (con eccezione della Toscana) la Città storica la ignorano. In molti dei nuovi piani essa non viene più perimetrata. Sempre meno abitata, è l’unica parte dell’aggregato urbano frequentata, bistrattata, storpiata, usata da un turismo che si vuole aumentare. L’epidemia dei bed & breakfast infesta alloggi storici monumentali e popolari. L’esplosione dei mini market – estensione in forme minori e apparentemente più amichevoli e umane delle catene della grande distribuzione organizzata – cancella le botteghe. Gli artigiani sono sempre più rari e le boutique sopravvivono con il turnover/scambio d’investimenti spesso poco trasparenti. Pizzerie e kebaberie, paninerie, salumerie e formaggiai si adeguano ai ristoranti e alle trattorie (con o senza «dehor») che invadono portici, strade e piazze.
È la moda. O, meglio, è il turismo di rapina, come amava ripetere Antonio Cederna («È una rapina edilizia ma la chiameremo turismo di massa», scriveva, ad esempio, nel 1983 sulla «Nuova Sardegna») che impone eventi, mostre effimere e movida, tutto per calamitare gente. Dalla città d’arte alla post-città shopping center; dalla fiera del tortellino e della mortadella, alternata con tre giorni di filosofia o di storia, alla città resort o luna park dei poveri; è un inno continuo alla valorizzazione del patrimonio. Ma chi lo tutela, il patrimonio?
I Comuni sono assetati di denaro e accettano volentieri il cambio di destinazione d’uso e i nuovi interventi. Le soprintendenze boccheggiano; unificate, condensano in una sola persona competenze che vanno dall’archeologia alla botanica, all’architettura, alla pittura, al paesaggio, all’incunabolo… Sono aumentate le loro funzioni ed è diminuito il numero degli addetti. I monumenti e le case, le strade e le piazze diventano simulacri di città storica per assenza di abitanti, elemento essenziale per renderla città. Venezia ha raggiunto i 30 milioni di turisti all’anno. Però i veneziani (e l’umanità) non hanno più Venezia.
Nell’insediamento minore cancellando – con o senza turismo – l’identità si distrugge la sua presenza. Chi si occupa di restauro urbano è accecato dall’ansia pantagruelica di lasciare un segno, la propria impronta. Come indice di modernità.
Eppure la città storica, se studiata e tutelata, può diventare il paradigma della città metropolitana italiana del XXI secolo. La sua presenza storica non aveva un centro e tanto meno una periferia. La sua struttura, basata sulle parrocchie e articolata in quella che oggi si direbbe la location dei conventi, potrebbe essere la base organizzativa della città metropolitana in Italia. Nella consapevolezza che l’innovazione è nella tradizione.
Ma studiare la città storica è faticoso. Inoltre in Italia c’è una particolare avversione verso la pianificazione. A molti, soprattutto a «sinistra», la parola ricorda i piani dell’Unione Sovietica; in generale la libertà è scambiata per liberismo che promuove la libera iniziativa e il libero mercato imponendo allo Stato la realizzazione dei servizi e la soluzione delle crisi bancarie o delle aziende in crisi economica.
Ma il liberismo in urbanistica genera periferia, consumo di suolo, privatizzazione dei luoghi paesaggisti e dei monumenti, degrado e crisi economica. Impedisce la partecipazione e di conseguenza una corretta pianificazione. Non è un caso che in Italia, da quando sono state attribuite a 11 città capoluogo il ruolo di «città metropolitana», nessuna di loro ha formulato ipotesi o bozze di piano o principi metodologici, di organizzazione del territorio «metropolitano». Altro che «rigenerazione».
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