Le riforme amministrative difficilmente infiammano gli animi, a differenza – specie nell’attuale periodo storico – delle riforme costituzionali, che invece alimentano dibattiti vivaci sui giornali, in televisione e sui social. Questo disinteresse trae alimento dall’idea che la Pubblica amministrazione sia un apparato burocratico che frena gli investimenti delle imprese e vessa i cittadini. Immagine fuorviante e non veritiera, perché le amministrazioni pubbliche sono lo strumento necessario per realizzare le politiche pubbliche e producono effetti sulla legittimazione dell’intero sistema politico. Non dedicare loro attenzione ha inevitabili ricadute pure a livello politico e occorre la consapevolezza che le riforme istituzionali non si esauriscono in quelle costituzionali, ma comprendono anche quelle amministrative.
Una seconda ragione rende il tema delle riforme amministrative centrale e non ristretto solo agli addetti ai lavori. Le riforme amministrative sono in grado di produrre in maniera immediata effetti duraturi sui cittadini e sulla società: tutti beneficiano di trasporti pubblici o servizi sanitari efficienti, come pure di un sistema scolastico e universitario di qualità o, ancora, di risposte rapide da parte dei funzionari pubblici.
Tuttavia, il tema delle riforme amministrative è spesso afflitto da retorica e dominato da alcuni slogan – digitalizzare, sburocratizzare, semplificare – che rischiano di rimanere formule vuote o, peggio, pericolose. Prendiamo la tanto invocata digitalizzazione. Attualmente si identifica essenzialmente con il ricorso alle Intelligenze artificiali. Si tratta di strumenti in grado di automatizzare compiti ripetitivi, fornire previsioni per assumere decisioni basate sui dati e contribuire alla personalizzazione dei servizi pubblici. Sulla carta tanti sono i loro potenziali benefici, utili a svecchiare l’immagine di un’amministrazione burocratica e lenta: maggiore efficienza, economicità, rapidità e riduzione dei tempi di conclusione dei procedimenti. Ma la realtà impone di fare i conti con nodi da sciogliere, ben esemplificati da vicende concrete.
Il tema delle riforme amministrative è spesso afflitto da retorica e dominato da slogan – digitalizzare, sburocratizzare, semplificare – che rischiano di rimanere formule vuote o, peggio, pericolose
L’Inps sta iniziando a servirsi di sistemi di Intelligenza artificiale per svolgere le sue attività sulla falsariga delle amministrazioni degli Stati scandinavi, che da tempo hanno interamente automatizzato l’erogazione di alcune prestazioni sociali. Proprio in questi Paesi, all’avanguardia quanto a sistemi di Welfare, l’uso della tecnologia artificiale ha già generato problemi. In Danimarca all’inizio di questo decennio è stato adottato un sistema di profilazione delle famiglie basato sulla combinazione di indicatori di rischio per l’individuazione di bambini da proteggere perché appartenenti a nuclei famigliari vulnerabili. Nel modello Gladsaxe, così chiamato perché iniziato come progetto pilota guidato dal comune di Gladsaxe, alla periferia di Copenaghen, i parametri impiegati per stimare il rischio di vulnerabilità includevano aspetti quali la salute mentale dei genitori, la disoccupazione, il mancato rispetto di visite mediche o dentistiche, il divorzio. Ciò era finalizzato a configurare un sistema di punteggi comportamentali: un punteggio anomalo allertava i servizi sociali, che intervenivano per prevenire abusi ed eventualmente procedere all’affido dei minori. Il meccanismo è stato pesantemente criticato e ciò ha portato alla sua sospensione e infine al suo ritiro definitivo. Le censure hanno riguardato sia la scarsa trasparenza, sia il mancato rispetto della privacy, sia la creazione di discriminazioni, ad esempio, nei confronti dei genitori single o divorziati. Non basta dunque ricorrere al mondo artificiale per produrre i risultati auspicati in termini di qualità del servizio perché bias, errori e opacità sono dietro l’angolo.
Come questa esperienza dimostra, una riforma dell’amministrazione all’insegna della digitalizzazione impone sfide anzitutto di tipo tecnologico. L’insieme dei dati utilizzati deve essere affidabile e soddisfare i requisiti di quantità (volume), qualità (value), varietà (variety), veridicità (veracity), velocità (velocity). Inoltre, agli utenti vanno fornite informazioni significative sui sistemi utilizzati, garantendo così trasparenza e conoscibilità (che non coincide comunque con la comprensibilità), senza poi trascurare la costante necessità di adottare elevati standard di sicurezza e di protezione della privacy. Sullo sfondo la questione, ineliminabile, dell’aumento del nostro condizionamento dai grandi colossi informatici, unici depositari delle competenze indispensabili a generare e gestire i sistemi.
Per l’amministrazione alle prese con i sistemi di Intelligenza artificiale non vi sono però solo sfide tecnologiche. Come precisato dal Regolamento europeo sull’IA e ribadito dal disegno di legge governativo in materia, il funzionario pubblico è l’unico responsabile degli atti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l’Intelligenza artificiale, la quale deve limitarsi a svolgere una funzione di supporto all’attività amministrativa. Questa cosiddetta riserva d’umano, altrimenti definita human-in-the-loop, pone all’amministrazione sfide di carattere organizzativo e culturale in senso lato.
Il funzionario pubblico è l’unico responsabile degli atti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l’Intelligenza artificiale, la quale deve limitarsi a svolgere una funzione di supporto all’attività amministrativa
Emerge così un secondo tipo di condizionamento – accanto a quello economico –, qualificabile come condizionamento di tipo valoriale. Infatti, l’Intelligenza artificiale, anche se utilizzata solo in maniera strumentale, rischia di portare con sé un germe di autoritarismo. Essa suggerisce all’amministrazione l’adozione di decisioni dettate da una logica efficientista, opposta alla logica democratica, che reclama trasparenza e conoscibilità e soprattutto mediazione, elasticità, attenzione al concreto. La mancanza di democraticità insita nell’impiego dell’Intelligenza artificiale è questione che attraversa tutta la sfera pubblica, interessando pure la politica. Nel fortunato libretto Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Byung-Chul Han sostiene che l’Intelligenza artificiale annichilisce la sfera pubblica: mentre la politica pre-digitale aspirava a essere dialogica, l’infocrazia impone un modo di essere individualistico e superficiale, cancella l’alterità e in questo modo distrugge le fondamenta della politica democratica.
Per l’amministrazione la questione è, dunque, cercare di sfruttare tutte le potenzialità insite nell’Intelligenza artificiale senza però abbandonare l’aspirazione ad essere aperta, flessibile e adattabile alle mutevoli circostanze concrete. Anche qui un esempio può essere utile. Uno tra i sistemi di Intelligenza artificiale generativa più noti è ChatGPT, basata su reti neurali che ricevono input e poi elaborano output. I nuovi chabot sono diversi dai vecchi motori di ricerca, che fornivano alcuni link e lasciavano all’utente la scelta di elaborare quanto letto, visto che consentono di preconfezionare testi in cui è già stata compiuta la scelta sull’impostazione del modo di riportare ciò che è stato reperito. Di fronte a queste novità è utile il suggerimento di imparare a utilizzare gli strumenti dell’Intelligenza artificiale continuando al contempo a coltivare le abilità umane, il pensiero laterale, la creatività e il senso critico.
Se caliamo questa indicazione all’interno delle pubbliche amministrazioni, lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale diviene un’occasione imperdibile per rafforzare l’intelligenza naturale dei funzionari pubblici. La creatività e il senso critico possono qui essere intesi come riappropriazione e valorizzazione della discrezionalità amministrativa, che comporta anzitutto porre all’Intelligenza artificiale le giuste domande, sviluppando l’ars interrogandi. Se infatti le risposte possono essere elaborate mediante strumenti di Intelligenza artificiale generativa, le domande restano sempre di esclusiva spettanza della persona umana.
Infatti, la Pubblica amministrazione non è tanto e solo un apparato che si limita a eseguire leggi, ma è anche e soprattutto un problem solver di questioni complesse in situazioni di incertezza normativa. La soluzione di problemi complicati è strettamente legata alla loro formulazione e, a sua volta, la maniera di porre questioni dipende dagli obiettivi, dalle esigenze e dagli interessi individuati. Così gli strumenti di Intelligenza artificiale possono aiutare i funzionari pubblici ad apprendere e poi raffinare la sottile arte di comprendere quali siano le questioni più importanti, di inquadrarle in un contesto preciso e di sfrondare ciò che è superfluo.
Questa auspicata trasformazione del modo di lavorare dei pubblici impiegati non si ottiene certo spontaneamente, bensì solo con specifiche politiche pubbliche: un’adeguata formazione del personale esistente, che combini nozioni tecniche e capacità umane, hard e soft skills, conoscenze e competenze, in una contaminazione continua; mirati piani di reclutamento, prendendo ad esempio l’Executive Order di Biden che ha introdotto un National AI Talent Surge. Per realizzare questi programmi occorre investire e soprattutto rendere competitivi rispetto al settore privato gli stipendi dei pubblici impiegati. Perché, se sempre e in ogni caso il principale fattore di miglioramento dell’amministrazione è il capitale umano, nessuna riforma amministrativa può essere a costo zero.
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