Un vecchio libro di Umberto Eco si intitolava Apocalittici e integrati. Eco vi analizzava le due posizioni estreme del dibattito (allora di moda) sulla nuova cultura di massa: da una parte i contrari, timorosi della perdita della tradizione umanistica (chi non ricorda gli anatemi delle vecchie professoresse anni Sessanta sulla diffusione dilagante della tv?), dall’altra gli entusiasti, sicurissimi che sarebbe nato un nuovo homo sapiens nutrito di moderna tecnologia. Qualcosa del genere mi pare stia accadendo sulla parola magica smart-working (citando Montale: «Mi dissi: Buffalo! – e il nome agì»).

Lo smart-working, o telelavoro o lavoro da remoto (ma le varie espressioni, queste e altre, non sono perfettamente equivalenti), è un’occasione da non perdere. Potrebbe rappresentare una delle pochissime eredità positive della pandemia mondiale. Dico «potrebbe», e il condizionale è d’obbligo.

Il tema non è nuovo. Sperimentato negli Stati Uniti negli anni Settanta dello scorso secolo, si è poi diffuso in varie forme in molti dei Paesi maggiormente industrializzati del mondo, radicandosi specialmente in alcune attività tipo vendita, assistenza tecnica, consulenza, programmazione software, grafica, insegnamento, studi e ricerca, giornalismo, recupero crediti, amministrazione del personale, call center, organizzazione di eventi ecc. Nelle università era sinora praticato nei corsi a distanza offerti dagli atenei privati, meno in quelli pubblici (che pure hanno tutti una quota elevata di studenti–lavoratori o comunque non frequentanti). La sua definizione è contenuta nell’Accordo quadro (European Framework Agreement) firmato nel 2002 da Etuc (European Trade Union Confederation), Unice (Union of Industrial and Employers’ Confederation of Europe) e Ceep (Centro europeo per le imprese pubbliche, secondo il quale «costituisce una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa»).

Le forme sinora utilizzate sono quattro o cinque: le principali sono il lavoro «a domicilio», quello «mobile», quello in «telecentri» specializzati diversi dall’abituale sede di lavoro, quello svolto in cosiddetti «uffici virtuali». La costante di queste fattispecie è la dislocazione delle persone in luoghi differenti l’una dall’altra, ma al tempo stesso la loro compartecipazione in collegamento, non necessariamente simultaneo, con un progetto di lavoro comune. È un po’ diverso quindi da quello che chiamavamo un tempo «portarsi il lavoro a casa»: qui vengono in evidenza la collegialità del lavoro in Rete e l’eventuale interazione delle varie «stazioni» anche molto distanti tra loro. La modalità collettiva tuttavia non esclude, almeno in linea di principio, che possa esservi un’autonomia individuale nei tempi del lavoro dei singoli, purché sia garantito alla fine e in tempo prestabilito il risultato finale.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 4/20, pp. 629-638. Il fascicolo è acquistabile qui]