Ricordo di aver visto Ricomincio da tre al cinema. Ero un liceale milanese e, anche se non capivo tutto, ridevo, come faceva tutta la sala. Erano risate di gioia, grate e liberatorie. Correva l'anno 1981 e il film fu il campione di incassi, 14 miliardi di lire, di quella stagione e rese Massimo Troisi immediatamente popolare in tutta Italia. Si disse che il film salvò quella stagione dell’industria cinematografica ma il declino della settima arte era già cominciato. L’avvento delle tv private, il cambiamento generazionale, l’inizio del ‘riflusso’, stavano cambiando le abitudini del pubblico. Nella stagione successiva Il marchese del Grillo di Mario Monicelli fu l’ultimo successo popolare di Alberto Sordi e il congedo dall’epoca dei "colonnelli della risata" – Sordi-Manfredi-Gassman-Tognazzi – che, per circa vent’anni, avevano prestato il loro volto agli italiani dal boom, all’epoca della partecipazione e del disincanto successivo.

La chiave per raccontare l’Italia agli italiani fu la commedia, l’osservazione di costume che si mescolava alla comicità. La lingua generalmente utilizzata era un italiano con inflessioni romanesche, anche se il pubblico era ancora suddiviso su basi territoriali (residualmente lo è ancora oggi) e così i produttori avevano spesso cura di accoppiare un attore del Nord a uno del Centro Sud. La cosa continuò anche con nuove maschere come Pozzetto, Celentano, Montesano, ma era il finale in minore dell’epoca d’oro del cinema italiano, preciso sismografo di quegli anni.

In realtà gli anni Settanta avevano definitivamente trasformato la nostra società: era cambiato il rapporto uomo/donna, la famiglia tradizionale era stata messa in discussione, i giovani erano diventati una categoria sociale che si distingueva anche per l’uso di una lingua spesso diversa da quella dei genitori (meno articolata, più paratattica, forse influenzata dalla lettura dei fumetti).

C’è una scena in Morto Troisi, viva Troisi! (1982), una serie di mediometraggi prodotta da Rai 3, diretta e interpretata da quelli che allora erano chiamati i "nuovi comici", in cui Carlo Verdone, Maurizio Nichetti, Lello Arena, Roberto Benigni e Renzo Arbore, riuniti in una casa di riposo, ricordano le virtù dell’amico Massimo prematuramente scomparso, non trattenendosi dopo qualche istante di parlarne malissimo. È uno scherzo macabro in cui Troisi si prende gioco del suo cuore malato e un’occasione per radunare amici e compagni di lavoro che inaugurano una nuova epoca del nostro cinema. La maggior parte di loro si era fatta notare in tv, nei programmi di Renzo Arbore (L’altra domenica) o in Non Stop, uno dei varietà "alternativi" diretti da Enzo Trapani in cui La smorfia, il trio composto da Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro, conquistò una prima popolarità nazionale. I loro erano sketch surreali, in cui i tre comici napoletani in calzamaglia nera mescolavano un umorismo da teatro dell’oratorio (scherza sui santi…) alla tradizione del cabaret. Qualcosa di mai visto prima e che piacque moltissimo. Il programma, che andava in onda su Rai 2, lanciò anche I gatti di vicoli miracoli, Carlo Verdone, Marco Messeri e vari altri. Tra gli ospiti musicali intervenne un giovanissimo Pino Daniele che presto divenne un compagno di strada di Massimo Troisi.

Il successo della trasmissione spianò la strada a Troisi, che ricevette parecchie offerte per passare al cinema e scelse un giovane produttore, Mauro Berardi, che gli offrì di dirigere la sua prima pellicola, scritta con Anna Pavignano, sua compagna di allora e poi sceneggiatrice di tutti i suoi film. Il film ricalca l’autobiografia di Troisi, un ragazzo di San Giorgio a Cremano – uno dei comuni della cintura di Napoli di cui l’attore rivendicò sempre la distinta identità dal capoluogo – che lascia il paese e il Sud, per andare a lavorare a Firenze, non come emigrante ma per ricominciare “da tre”. Il ribaltamento del luogo comune è uno dei principi della comicità di Troisi che spesso è più facile ritrovare, più che nei film, nelle ospitate televisive, dove ha l’abitudine di stare semisdraiato sulla sedia che gli mettono a disposizione ed è un campione nel gioco di rimessa.

Il ribaltamento del luogo comune è uno dei principi della comicità di Troisi che spesso è più facile ritrovare, più che nei film, nelle ospitate televisive

Quest’anno, in occasione dei settant’anni della nascita, due documentari lo celebrano. Buon compleanno Massimo (2023) di Marco Spagnoli ha un andamento più tradizionale tra interviste e pezzi di repertorio tenuti insieme dal giallista napoletano Maurizio De Giovanni. Più interessante Laggiù qualcuno mi ama (2023) di Mario Martone, che potrebbe essere definito un film saggio che ha per tesi che il centro dell’opera di Troisi è nelle regie cinematografiche paragonate, raccogliendo uno spunto della rivista "Sentieri Selvaggi", alle opere delle nouvelles vagues, in particolare ai film in cui François Truffaut mette in scena Antoine Doinel, il suo alter ego cinematografico interpretato da Jean-Pierre Lèaud. In comune il disagio di vivere, una malinconia di fondo, insieme al desiderio di crescere, di fare nuove esperienze. L’ipotesi appare un po’ pretestuosa, anche perché i film successivi di Troisi sono meno interessanti e lui stesso si affidò a Ettore Scola per ampliare i propri orizzonti, ma non inficia l’interesse del film che si avvale della collaborazione alla sceneggiatura di Anna Pavignano che mette a disposizione appunti inediti e una registrazione in cui l’attore riflette sul proprio mestiere. Spunti notevoli provengono da Paolo Sorrentino che analizza la comicità di situazione di Troisi diversa da quella classica napoletana, o da Goffredo Fofi che ricollega il duo Troisi-Arena ai film degli anni Trenta di Eduardo e Peppino.

Per la prima volta poterono "essere napoletani" e non "fare i napoletani", fino ad allora una scorciatoia per raggiungere il successo appoggiandosi a cliché e luoghi comuni

Quello che mi pare manchi nei due documentari, anche se si fa cenno a come il terremoto del novembre 1980 fu una cesura nella storia della città, è come Ricomincio da tre e la musica di Pino Daniele – il concerto di piazza Plebiscito è del settembre 1981 – offrirono a una nuova generazione di napoletani un modo diverso di vivere la propria identità. Per la prima volta poterono "essere napoletani" e non "fare i napoletani", fino ad allora una scorciatoia per raggiungere il successo appoggiandosi a cliché e luoghi comuni e un modo per la città di autoassolversi. Il discorso non vale, naturalmente, per il teatro di Eduardo. Una rivoluzione gentile che ci fa rimpiangere ancora di più la mancanza di Massimo Troisi e Pino Daniele, comunque assurti nel pantheon che decora le pareti delle pizzerie napoletane insieme a Totò, Eduardo e Maradona. Una forma di "patriottismo civico", secondo la definizione di Thomas Belmonte, che spesso sostituisce il senso di cittadinanza.