Il Parlamento è l’ultimo posto al mondo dove dovrebbero farsi le leggi? Il sospetto viene, a considerare la vicenda dell’introduzione in Italia del reato di tortura, su cui il Senato ha trovato una larga intesa la settimana scorsa. Sulla vicenda, c’è poco da aggiungere alla conclusione tratta su questo sito da Marina Lalatta Costerbosa: un legge così sarebbe meglio che non fosse approvata. Ma poiché la vicenda è emblematica della crisi strutturale della legge parlamentare, ricapitolo la vicenda e argomento il mio sospetto.
Tutto nasce dalla Convenzione contro la tortura del lontano 1984, ratificata dall’Italia nel 1988, ma poi accantonata dopo il G8 di Genova del 2001, perché osteggiata dai sindacati di polizia e dalla destra. La Convenzione obbligava tutti i Paesi a vietare un delitto così definito (art. 1): «Il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale».
Come segnalo nel mio libro Non c’è sicurezza senza libertà, pubblicato dal Mulino, se la Convenzione impegna i Paesi firmatari a qualcosa, è a vietare la tortura come reato proprio, compiuto da un pubblico ufficiale. L’art. 613 bis che la legge vuole introdurre nel codice penale, invece, recita: «Chiunque, con più atti di violenza o di minaccia, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana [...] è punito con la reclusione da tre a dieci anni» (corsivo aggiunto). Chiunque. Se poi «il fatto è commesso da un pubblico ufficiale [...] allora «la pena è della reclusione da quattro a dodici anni».
Estendendo a chiunque il divieto, si è superato il rifiuto della destra con la mozione degli affetti secondo cui non si perseguitano i poliziotti ma si tutelano i più fragili
Il Senato ha approvato il disegno di legge, rinviandolo alla Camera, a larghissima maggioranza (195 favorevoli, 8 contrari e 34 astenuti), e si capisce perché. Estendendo a chiunque – maestre, infermieri, badanti... – il divieto, si è superato il rifiuto pregiudiziale della destra con la seguente mozione degli affetti: mica perseguitiamo i poliziotti, tuteliamo i bambini, i malati, gli anziani... Un compromesso: uno dei tanti su cui si fonda la democrazia. Peccato che dopo il 1948 stiamo in una democrazia costituzionale, dove non si dovrebbero violare trattati pacificamente attuati da tutti i Paesi civili.
Cass Sunstein ha distinto due tipi di compromesso: uno al rialzo (invocando principi che poi tutti interpreteranno come vogliono), l’altro al ribasso (formulando regole specificissime accettabili da chiunque). Il compromesso escogitato dal nostro legislatore per trarsi d’impaccio li mischia entrambi e combina espressioni come «trattamenti [...] degradanti la dignità umana», dove il participio tortura l’italiano, a «più atti di violenza e di minaccia», che, come nota Roberto Settembre, il giudice d’appello sul caso di Bolzaneto, impedirebbe di perseguire molte torture compiute durante il G8.
Perseguire la tortura rispettando la legalità non è di sinistra: è uno dei requisiti minimi dello Stato di diritto
Qualcuno potrebbe persino concludere: chi se ne frega della legge, tanto poi ci penseranno i giudici, come in tutte le questioni eticamente sensibili. E invece no, qui no: i giudici non possono introdurre nuove figure di reato, violando il principio di legalità penale. Se la legge naufraga, dunque, le torture quotidianamente compiute anche in Italia – come in tanti Paesi che hanno firmato la Convenzione solo per entrare nel club delle nazioni civili – resteranno impunite. Eppure, perseguire la tortura rispettando la legalità non è di sinistra, come direbbe il ministro Minniti: è uno dei requisiti minimi dello Stato di diritto.
Quando, dopo decenni di discussioni, si partoriscono pastrocchi del genere, il problema non è solo di drafting legislativo: anche se uno s’immagina la redazione di questa legge come la dettatura della lettera di Totò a Peppino. E neppure di selezione della classe politica: benché sia chiaro che oggi ai legislatori si richiedono tutte le virtù tranne quelle dei nomoteti. Il punto è che su questioni di principio non è il Parlamento – camera di compensazione dei conflitti sociali, o di negoziazione fra lobby – il posto migliore per fare le leggi: una volta, ci pensavano i giuristi. Fate fare la legge sulla tortura a qualsiasi professore di diritto penitenziario, verrà meglio.
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