La consegna in data 17 giugno (resa pubblica dai media il 22 giugno) di una Nota verbale all’Ambasciata italiana da parte di monsignor Paul Richard Gallagher, segretario della Santa sede per i rapporti con gli Stati, sul disegno di legge Zan per l’introduzione di «misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità» in Italia ha generato un acceso e ampio dibattito.
Gli argomenti toccati sono stati diversi, dalle accuse di ingerenza delle gerarchie vaticane nei confronti di uno Stato laico come l’Italia alle considerazioni teologiche sull’omosessualità, a conferma che le questioni di biopolitica sono sì spesso un concentrato di ideologie, per altro di impronta trasversale, ma anche tra le poche in cui ancora si vede una partecipazione larga, che non sia stata cioè completamente travolta dalla rarefazione delle mediazioni sociali che le nostre società sperimentano.
Di tali questioni è ancora tangibile una certa esprimibilità del potenziale che informerebbe il Paese di una cultura del collettivo, se non fosse per il carattere marginale cui esso è stato destinato dalle polarizzazioni che segnano ormai i dibattiti in merito. Marginalizzazione, questa, che complica ma non elimina la possibilità di cogliere quella forza di edificazione consapevole della cosa pubblica che ha attraversato il Novecento. Occorrerebbe pensare di più, poi, al significato introdotto dalla trasformazione degli spazi di partecipazione da fisici a quasi esclusivamente digitali. Così da affrontare, quasi sicuramente, il bisogno che i temi di biopolitica hanno di essere fortemente smorzati (ogni tanto, anche nella Chiesa, farebbe bene leggere libri come questo): un bisogno che è di esercizi di conversazione con cui ricondurre il dibattito sui livelli dello scambio richiesto perché siamo tutti parziali, il che vale sempre e perfino per le dottrine, costrette a soppesare la storia e le storie, la teologia e le teologie che le precedono. Non per iniziative al ribasso, ma per l’approfondimento come ciò che ci ha condotti fin qui.
Ma non è tanto di dottrine che si deve parlare. Chiaro è che per europei più vicini all’impostazione francese come gli italiani (incluso chi scrive) non sia facile non diffidare di ciò che proviene da ambienti ecclesiastici, come nella più nobile delle tradizioni dell’anticlericalismo continentale; ma altrettanto chiaro dovrebbe essere che la richiesta vaticana di modifica del disegno di legge perché violerebbe il Concordato con lo Stato italiano non abbia come criterio la dottrina ma la diplomazia. Non è solo che una Nota sia un atto diplomatico e non dottrinale, ma anche che l’obiettivo della diplomazia è sensibilmente diverso da quello della dottrina.
In Europa è difficile non nutrire la diffidenza tipica del più tradizionale anticlericalismo continentale, ma la richiesta vaticana di modifica del disegno di legge non ha come criterio la dottrina ma la diplomazia. Occorre distinguere tra la fede e i diritti e doveri della fede
Quella pontificia è notoriamente una diplomazia abile, le cui mosse originarie riguardavano indubbiamente l’unità della fede, anche se in contesti molto diversi. Ma con il tempo è diventato molto meno vero che l’intento diplomatico vaticano si rivolgesse all’imposizione dell’insegnamento ufficiale cattolico, soprattutto perché non è mai stato vero che il cattolicesimo non avesse in sé pratiche e sensibilità diverse. Oggi occorre riconoscere la differenza tra dottrina e diplomazia, tra la fede e i diritti e doveri della fede. Da considerare qui non c’è solo che il Vaticano sia anche la Santa sede, il che lascerebbe concludere che a proposito del ddl Zan si sia effettivamente trattato di un’ingerenza: perché la consegna della Nota da parte della Segreteria di Stato non consiste nella volontà di potenza di un soggetto estero, ma reclama il mantenimento di un diritto (la libertà di professare liberamente ciò che si crede senza imposizioni di altra natura, per discutibili che siano) e di un dovere al tempo stesso (la responsabilità che i credenti hanno davanti al resto della società civile). È in questo senso che l’intervento vaticano deve essere letto con le lenti della libertà religiosa.
Il papato può contare oggi su un numero di missioni diplomatiche secondo solo agli Stati Uniti e alla Germania, il che deve poter significare qualcosa nello scacchiere delle interpretazioni possibili di una mossa da parte del piccolo Stato. Gli obiettivi perseguiti non riguardano più l’aumento di potenza secolare, ma la nuova configurazione internazionale ha fatto sì che il papato diventasse un riferimento per accentuare il ruolo delle coscienze personali e comunitarie e per la mediazione nei conflitti che ancora si verificano in Europa e nel mondo.
Ma c’è ovviamente dell’altro. Questo non significa, infatti, che non si possa parlare di dottrina né che la mossa non comportasse dei rischi. Come quello, subito concretizzatosi, di concedere più di una sponda alle frange religiose e politiche più conservatrici, davanti al quale si deve quanto meno credere che sia stato calcolato e proporzionato rispetto all’eventualità di rimanere in silenzio. La realtà sembrerebbe parlare di una prevista e nello stesso tempo imprevista eterogenesi dei fini, nel senso di un messaggio lanciato all’Italia ma non solo, poi sintetizzato dal segretario di Stato Pietro Parolin, che ha precisato come non si stesse chiedendo di bloccare la legge ma di chiarire i passaggi più problematici: mostrando così, paradossalmente, un sostegno indiretto all’iniziativa legislativa, perché la Chiesa è «contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale». Si tratta di un’argomentazione piuttosto diversa da quelle di chi sostiene che l’attuale impianto normativo sia sufficiente.
Non che non si possa parlare di dottrina né che non ci fossero dei rischi, come quello di concedere più di una sponda alle frange più conservatrici. Ma la realtà sembrerebbe parlare di una prevista e nello stesso tempo imprevista eterogenesi dei fini
Che una distinzione tra diplomazia e dottrina sia necessaria, inoltre, lo attesta l’inconfondibilità oggettiva tra la Segreteria di Stato e la Congregazione per la dottrina della fede come dicasteri a sé stanti della Curia romana, nonché il fatto che l’argomentazione riportata abbia fatto leva sul rispetto del Concordato, l’alternativa alla quale non poteva che ricalcare ciò che oggi sta accadendo negli Stati Uniti. La possibilità che la Conferenza episcopale americana vieti a Joe Biden di accostarsi all’eucaristia è remota, ma rientra in un immaginario non poco realistico in cui il ruolo della religione è radicalmente diverso da quello che essa ha in Italia e in generale in Europa.
Alla luce di tutto questo, vanno lette anche le parole del presidente del consiglio Mario Draghi, il quale ha sottolineato la laicità dello Stato, ma nel senso preciso che la laicità «non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, bensì tutela del pluralismo e delle diversità culturali». Il profilo di Draghi è apparso così quello di un politico europeo. E il suo discorso, più che al Vaticano, indirizzato al Paese.
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