L’India è finalmente uscita dal cono d’ombra in cui era relegata. L’impetuosa crescita economica degli ultimi anni, la conquista del primato di nazione più popolosa, la pomposa e studiatissima organizzazione del G20 hanno portato in primo piano la questione indiana. Ponendo molti interrogativi. Tra questi, il posizionamento internazionale, la dinamica del settore produttivo, gli effetti sociali di tali sviluppi, la tenuta del sistema democratico insidiato dal deperimento dello Stato di diritto e delle libertà civili e politiche.
L’India nasce su una serie di spinte diverse: dal messianismo non-violento gandhiano, incrociato – e spesso contrastato – da spinte indipendentiste di tutt’altra natura (l’Indian Army di Chandra Bose, alleata dei giapponesi nel corso della Seconda guerra mondiale per liberare il Paese dagli inglesi), al pragmatismo modernizzatore dei bramini del Nord di cui Jawaharlal Nehru, il primo, longevo, capo del governo, è stato l’espressione più alta e coerente; dal secolarismo garantito nei principi fondamentali della costituzione – benché contraddetto in nuce già dalla frattura drammatica della partition, la separazione della componente musulmana che dà vita al Pakistan al momento dell’indipendenza –, al rinascente induismo come elemento identitario e fonte di legittimazione profonda del Paese; dall’eredità amministrativa del Raj britannico alla rivendicazione di una via autonoma allo sviluppo, peraltro incastrata, e inceppata, tra la nostalgica e regressiva economia del villaggio vagheggiata dal Mahatma, e la prospettiva pianificatrice, accentratrice e dirigista dei primi decenni, in linea con il precetto costituzionale che definisce il Paese, oltre che secolare e democratico, socialista.
Alcuni passaggi hanno ridisegnato il progetto originario dei fondatori. Uno stacco, in realtà una drammatica regressione, rimanda al periodo della cosiddetta “emergenza” decretata da Indira Gandhi, figlia di Nehru, nel 1975. Un periodo di sospensione delle libertà civili con arresti di massa e conseguenti violenze in tutto il Paese. Proprio in quella circostanza la democrazia indiana si dimostrò sufficientemente forte da reggere a quella curvatura autoritaria, e rovesciare Indira Ghandi alle elezioni del 1977. Un altro riguarda l’economia che da pianificatrice e socialista si è progressivamente liberalizzata, aperta ai privati e all’internazionalizzazione in diverse ondate, dalla metà degli anni Ottanta col governo di Rajiv Ghandi, pioniere dello sviluppo tecnologico, poi, con Narashima Rao e Manmohan Singh, fino all’attuale esecutivo. L’ultimo passaggio, tuttora in corso d’opera, rappresenta un possibile turning point del sistema politico indiano. I cambiamenti introdotti dal partito al potere dal 2014, il Bharatiya Janata Party – Partito del popolo indiano (Bjp) – e quelli che si presume verranno realizzati se conquisterà, come pronosticato, il controllo del Parlamento alla fine di questa tornata elettorale, investono ogni aspetto della vita della nazione nel tentativo di darle un nuovo volto.
L’arrivo al potere del Bjp è il compimento di una lotta sotterranea di lungo periodo per ridefinire l’identità del Paese in nome dell’Hindutva
L’arrivo al potere del Bjp sotto la guida di Narenda Modi nel 2014 rappresenta il compimento di una lotta sotterranea di lungo periodo per ridefinire l’identità del Paese in nome dell’Hindutva, l’ideologia nazionalista della supremazia hindu. Fin dagli anni Cinquanta i precursori del Bjp volevano restaurare la vera natura del Paese rintracciabile nell’identità religiosa e nel suo glorioso passato contro l’ideologia modernizzatrice di Nehru, proiettata a creare una nuova India. Con un lavoro di lunga lena, a partire dal controllo di alcuni stati chiave, in primis il Gujarat dove Modi ha governato a lungo, grazie a una mobilitazione costante, sostenuta dall’inquietante organizzazione parallela del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) a cui molti attribuiscono tratti parafascisti, paragonando addirittura la sua organizzazione a quella del partito nazionalsocialista, a un appello cross-class ma rivolto soprattutto alle caste inferiori, spesso snobbate dai bramini del Congresso, e soprattutto a una infiammata retorica nazionalista e confessionale, il Bjp è arrivato al potere.
Sul piano economico i risultati appaiono scintillanti in quanto l’incremento del Pil viaggia da anni sopra quello della Cina, ma la disoccupazione, soprattutto giovanile, e le diseguaglianze sono in crescita: 9 indiani su 10 hanno un reddito inferiore a quello medio annuale di 2.800 dollari, il che significa che la ricchezza è estremamente concentrata in poche mani e a livelli elevatissimi. Inoltre secondo l’economista Prabhat Patnalk della Jawaharlal Nehru University di New Delhi, la popolazione rurale dispone ora di molte meno calorie giornaliere di quante non ne avesse a disposizione nei primi anni Novanta.
Se sul terreno socio-economico vi sono luci e ombre, molto più uniformemente fosco è l’ambito delle libertà politiche e civili. L’India è precipitata verso il basso. La Freedom House l’ha retrocessa tra i Paesi “parzialmente liberi”, al 158° posto, ed è appena due gradini sopra la Russia [sic!], per quanto riguarda la libertà di stampa. Giornalisti e politici intimoriti, minacciati o arrestati sono notizia quotidiana. Molto risalto ha avuto la sospensione dal Parlamento del leader del Congresso Rahul Ghandi per un supposto oltraggio al Primo ministro. Ma quell’episodio non rappresenta altro che la punta di un iceberg.
L’offensiva nei confronti dell’opposizione, di cui ha fatto le spese anche il popolarissimo governatore (chief minister) di New Delhi, Arvind Kejriwal, arrestato per le “solite” accuse di corruzione, è condotta dallo stesso Modi in prima persona. Non solo la personalizzazione è spinta al limite del culto della personalità: nelle 69 pagine del programma elettorale del Bjp la sua immagine appare 50 volte e il suo volto campeggia in milioni di manifesti. L’alfa e l’omega del suo programma si riassumono nella sua persona, nelle sue grandi doti e capacità, ma, in queste elezioni, si trova a fronteggiare alcuni segnali non incoraggianti – soprattutto la disaffezione che circola anche tra le classi inferiori e le critiche della parte più dinamica del Paese concentrata negli Stati del Sud, Karnataka, Kerala e Tamil-Nadu in primis.
Si vota in 7 tappe, lungo 44 giorni, fino al 1° giugno. Sono chiamate al voto 968.821.926 persone
Al di là delle intimidazioni e delle forzature, le elezioni si presentano ancora come una competizione aperta. Il 19 aprile è iniziato il lungo percorso per eleggere i 543 membri del Parlamento (Lok Sabha). Si vota in 7 tappe, lungo 44 giorni, fino al 1° giugno. Sono chiamate al voto 968.821.926 persone. Non è possibile fare confronti con altri Paesi, a meno di non considerare le elezioni farlocche che si tengono in Cina. Segue l’Indonesia – che ha votato anch’essa all’inizio dell’anno – con 204.421.612 elettori, terzi gli Stati Uniti con 230 milioni, dove peraltro la registrazione nelle liste elettorali è volontaria. Staccato il Brasile, quarto, con 156 milioni. Questa gigantesca operazione necessita della mobilitazione di circa 15 milioni di scrutatori e di altri funzionari per assicurare le operazioni di voto e dell’installazione di più di un milione di seggi. Per garantire il voto a tutti sono istituiti anche seggi “volanti” che vengono portati nelle zone più impervie laddove è proibitivo muoversi per andare a votare (e l’avventura di un responsabile di questi seggi in una zona di latente guerriglia – che esiste tuttora in alcune aree – sono state gustosamente narrate nel film Newton). La mobilitazione degli apparati pubblici per sollecitare tutti al voto è indubbia, e confortante per la democrazia: manifesti giganteschi costellano le città, volantini di ogni tipo sono affissi in tanti luoghi pubblici, dalle banche alle stazioni, e spot televisivi appaiono molto di frequente, anche nei cinema.
In sostanza, nonostante le pulsioni autoritarie, con arresti, boicottaggi e controllo sull’informazione pubblica, e il ridisegno delle circoscrizioni elettorali con classici effetti distorsivi tanto che, in Assam, i musulmani – i nemici per antonomasia – sono stati sia dispersi sia spostati in una sola circoscrizione, il risultato non è scritto. Molto dipende dalle alleanze che vengono strette con esponenti dei partiti regionali. Entrambi i grandi partiti cercano di ottenere l’appoggio delle molte formazioni locali e per questo si presentano in alcune circoscrizioni con nomi diversi in base alle coalizioni che vengono concordate. Del resto, l’India è una federazione di 28 Stati, più otto territori, tra cui quello della capitale, con caratteristiche e lingue (ne sono riconosciute 21 lingue, oltre alle due ufficiali, inglese e hindi) ben definite.
Se vincerà Modi, l’India, o “Bharat”, come il premier vorrebbe ridenominare il Paese, c’è il rischio che scivoli ancora di più verso il populismo autoritario, il nazionalismo e l’integralismo religioso. Le democrazie si ritroverebbero molto più isolate e il mondo, forse, ancora meno sicuro, nonostante il proclamato multi-allineamento.
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